11'09''01
REGIA: Samira Makhmalbaf, Claude Lelouch, Youssef Cachine, Danis Tanovic,
Idrissa Oudraogo, Ken Loach, Alejandro Gonzalez Inarritu, Amos Gitai, Mira
Nair, Sean Penn, Shohei Imamura
CAST: Maryam Karimi, Ernest Borgnine, Taleb Adlah (…)
SCENEGGIATURA: Samira Makhmalbaf, Amos Gitai, Paul Laverty (…)
ANNO: 2002
A cura di Pierre Hombrebueno
STAND BY (ME)
11 minuti ciascuno per 11 filmakers da ogni angolo del globo terrestre, dagli
Stati Uniti al Burkina Faso, dall’India fino al Giappone. Tutti insieme
lì per raccontare sensazioni ed interrogarsi sull’11 Settembre 2001,
l’attacco terroristico alle torri gemelle. Ognuno con la propria libertà
d’espressione, il proprio metodo d’approccio ad un avvenimento così
potente ed evocativo, penetrante e le cui tracce il mondo sta ancora vivendo.
C’è chi adopera la docu-fiction, chi l’auto-coscienza
psicanalitica, addirittura chi volge lo sguardo con ironia, chi la pura concettualità
d’immagine. La morte va incentrata o solamente circumnavigata? In quali
termini l’Arte ha il diritto (o il dovere?) etico
nell’approfondire, metaforizzare, politicizzare un evento di tale
portata? Ci giungono giustamente diverse risposte e diverse riflessioni,
specchi di fantasmi, di (non)vissuto, il Cinema che all’era del
post-moderno, più che mai, deve confrontarsi con la vita vera e riflettersi in
essa.
E si inizia con l’innocenza dei bambini di Samira Makhmalbaf, probabilmente il segmento più coinvolto in
quanto di nazionalità Iraniana. Un Cinema che urla silenzio, la vera
provocazione del post-11 Settembre, in questo paese dove la gente ignora
totalmente il resto del mondo con i suoi progressi. In un certo senso un
frammento pedagogico, reale, di commemorazione ma nel contempo di denuncia più
globale, con quella metafora della torre nera di fabbrica che col suo fumo
grigio non è che trasfigurazione del World Trade Center in fiamme, come a dirci
che non è solo New York che brucia, ma tutto il mondo. E si rimane con quel
silenzio liturgico, giusto incipit di un lavoro collettivo, silenzio poi
proseguito con più stilizzazione da Claude
Lelouche, che racconta la fine della quiete occidentale con la fine di un
amore, quello tra una sordo-muta e suo marito. L’autore francese sceglie
un approccio più “cinematografico”, fictionario, con
quell’uso del (non)sonoro che per almeno i primi minuti, ci regala la
bellezza di un film muto, contro ogni barriera di diversità linguistica. Probabilmente
l’episodio più ottimista (insieme a quella di Idrissa Ouedraogo), che crede nel riscatto e nel (ri)trovare la
positività anche delle cose pessime, ovvero quello dell’amore,
miracoloso, che nasce da ogni tragedia, il ritorno degl’affetti e del
valore famigliare.
L’egiziano Youssef Chachine ci
trasporta invece in una dimensione più intima ed intimistica in un’auto
psicanalisi di confusione e perdita dei sensi. L’artista davanti alla
tragedia, la reazione emotiva, la visione di fantasmi, proiezioni in un mondo
di lutto che non tende a dare risposte, ma lascia la propria via ai ricordi
della propria incertezza.
Invece, momento di rilasso (si fa per dire) per la messa in scena di Ouedraogo, che filtra la propria
narrazione con ironia, vitalità e simpatia, in un episodio che inizialmente
parrebbe puntare al Cinema sociale dell’Africa povera e senza mezzi di
sopravvivenza, per poi finire in una coinvolgente caccia all’uomo che ha
il coraggio di ironizzare sui drammatici eventi. In fondo però, non è
nient’altro che l’innocenza dell’occhio fanciullesco che
vacilla ancora nel coraggio di sognare e di fantasticare, di giocare perché
incapace di pensieri negativi; e alla fine, a vincere, ancora una volta, è
l’amicizia e l’umanità che lega i vari protagonisti.
Insignificanti per motivi diversi, i segmenti di Danis Tanovic e Ken Loach.
Da una parte la debolezza metaforica del coraggio e della lotta, disfunzionante
per la povertà semantica e la bassa capacità di evocare sensazioni per
immagini. Dall’altra, un (quasi)totale documentario per ricordarci
gl’attentati in Cile (avvenuti sempre in un 11 Settembre), intenzionalità
nobile ma poca inventiva, in quanto basata unicamente su filmati di repertorio.
Deboli anche i tracciati di Amos Gitai
e Mira Nair. Il primo
nient’altro che pura esibizione di stile, con il piano sequenza in
macchina a mano che viene però privata della propria significazione, e dunque
inadatto e fuori coro alla sensibilità (umana ed artistica) richiesta. Il
secondo, mera esibizione di banalità per la sovra-tendenza di enfatismo (come
l’uso del flash-back con fotografia patinata), incapace di lucida
freddezza davanti la potenzialità del plot (quello di un ragazzo creduto
terrorista, quando invece non era altro che un eroe salvatore –martire
dei grandi ideali umani).
L’opposto di Inarritu, nel
frammento più post-modernistico e video-clipparo, nella perfetta congiunzione
ritmica delle immagini e delle non immagini: il Cinema svuotato (nel vero senso
della parola) che ritorna schermo nero (metafora chiara e semplice del buio e
della mancanza di orizzonti, odissea di sensi e di percezioni, guardacaso usato
anche per l’inizio del 2001 di Kubrick), con quei flash godardiani di
morte, di verità, incubo gestito da un climax ascendente che dilata sempre di
più il bianco dal nero, quasi a costringerci a scegliere se preferiamo il
non-vedere, la nullità, o l’esplicitazione del dolore, della morte in
diretta. Quello del messicano rimane l’episodio più suggestivo, insieme a
quelli di Sean Penn e Shohei Imamura, i due riflessi più poetici
e radicali. Puro Cinema di corpo quello dell’attore di Mystic River, che si avvale di un Ernest Borgnine per raccontare la vita
della morte (o la morte della vita): puro dolore e provocazione, apertura
degl’occhi e rinascita tramite la caduta delle 2 torri, il sole che
torna(tornerà?) a risplendere sulla vita tramite la distruzione. Grande
evocazione ed emozione da parte di un (nonpiùsolo) attore sempre più sensibile anche
come creatore d’immagini.
Ed infine, l’episodio visivamente più estremo di Imamura, l’uomo che fugge da sé stesso per diventare un
serpente, in un mondo dove ogni cielo è così doloroso che psiche e corpo si
anestetizzano, e l’unica via di fuga che rimane è uccidere lentamente la
propria umanità: si, meglio bestia che uomo, meglio strisciare e annegare tra
le acque che vedere e vivere ancora la propria umanità ormai infranta e
disgregata. (Non) Metafora esplicita e viva, nella seconda guerra mondiale così
come oggi.
Presentato a Venezia, dove ha suscitato scandali più o meno (a)politici,
11’09’’01, nonostante le strade e i risultati diversi per
un’opera(zione) di palese ed evidente eterogeneità qualitativa, rimane un
lavoro essenziale per capire direzioni e sguardi, quello che eravamo, siamo
(diventati), e saremo. Americanismo o Anti-Americanismo, rimane l’umanità,
la suggestione del chiedersi ed interrogarsi, tra questa coralità di voci,
personaggi, ed ectoplasmi senza spazio e senza tempo.
(05/10/06)