NEDS di Peter Mullan
REGIA: Peter Mullan
SCENEGGIATURA: Peter Mullan
CAST: Conor McCarron, Martin Bell, Grant Wray, Marcus Nash, Linda Cuthbert
NAZIONALITÀ: UK, Francia, Italia
ANNO: 2010
“SO RECOGNIZE YOUR AGE IT’S A RAMPAGE,
TURN ANOTHER PAGE ON TEENAGE RAMPAGE, NOW!”
TEENAGE RAMPAGE, SWEET
Medesima bellezza, identico destino italiota. Neds, seconda, formidabile performance dietro la macchina da presa di Peter Mullan, ha visto anche lui sbattersi sul muso le porte della distribuzione nostrana, né più né meno come accaduto al suo similare This is England; tanto che alla luce di uno speciale sull’inglese Shane Meadows risulta impossibile, pena la mancata completezza d’informazione, sorvolare sul successore di Magdalene: fratello -“figlio unico” di This is England. Tra i due il paragone non può non sorgere spontaneo, nonostante Neds si palesi, fin dalle primissime inquadrature, come progetto artistico programmato su un bersaglio diverso rispetto all’opera che ha reso celebre Meadows. A differenza del collega, Mullan pigia ancor di più sul pedale dell’emarginazione, alienando fino ai limiti del consentito contesto, ambientazione del racconto e di conseguenza le esistenze dei personaggi che lo popolano. I suoi “non educated delinquents” non posseggono nulla, in quanto figure smarrite nell’estrema provincia di Glasgow, pericolosamente in anticipo sui tempi, drammatica X-generation privata persino di quei codici, di abbigliamento e comportamento, che in This is England iniziavano a configurarsi come moda nascente e stradaiola. I ragazzi di Mullan distano chilometri da Londra, non sono mod, rockers, punk o skinhead: tanto meno dark o new-wave, per loro niente ska, reggae o retaggi post consolle di Don Letts, senza posto o tendenza alla quale conformarsi, sfuggono liberi a qualunque lente d’ingrandimento controculturale. Quello affrescato da Neds è uno spaccato tragicamente “alternativo”, fuori (dal) tempo o drammaticamente in anticipo su di esso: una dimensione a sé stante che trasforma il gruppo di riferimento in minoranza nettamente più emarginata rispetto a quella immortalata da Meadows, la quale invece, possedeva già ideologie da difendere/travisare, oltre a stili di vita da ostentare. Persino la musica è preclusa ai bad guys di Mullan, DIY quindi, con gli avanzi glam di T-Rex e Sweet a “scortare” alcuni dei passaggi registici più efficaci, nonostante quel movimento sia (stato) decisamente altro rispetto ai (non) valori strillati in Neds. Violenza cieca e paranoia da cortile regnano sovrane, con la seconda impegnata a rimpossessarsi emotivamente della scena ogni qual volta la prima tenta di sottrargliela, sfruttando al meglio scatti furiosi prossimi alla lucida follia: quest’ultima detonazione improvvisa e inarrestabile, a lungo covata sotto la cenere dei reiterati abusi familiari, seme malato di una pianta che abbandonata cresce, destinata a sfogare nell’esterno delle strade tutto il suo selvaggio e gratuito furore. Neds affascina ma al contempo riesce anche a mettere sul chi vive la percezione di chi guarda, schierato com’è, o come per buona parte sembra essere, sul partigiano versante riconducibile al suo interprete principale. Connor McCarron dà vita ad un personaggio a lungo ritratto nella cornice della vittima a tutti i costi, costretto a delinquere a causa di un sistema che mai sembra comprenderlo, il quale quasi lo autorizza ad andare sopra le righe: famiglia, educazione scolastica, amicizie soffocano McCarron, senza che per lunghi tratti venga mai adeguatamente sottolineata la consapevolezza insita nei sui deprecabili atteggiamenti. Il tempo di assumere una posizione critica e Mullan fa saltare il banco, sparigliando le carte grazie ad un finale capace di elevare a potenza la pellicola, attraverso la saggia espiazione conclusiva, che tanto sa di definitiva presa di coscienza dei danni commessi e conseguente passaggio, almeno mentale, dall’età adolescenziale a quella adulta. Neds è scheggia fieramente ed efficacemente impazzita, film che, nonostante i giustificabili paragoni con This is England, ben poco fatica nel farsi definire come opera a sé. Unico e in buona parte sorvolabile difetto l’incapacità a volte colpevole di allacciare come meglio ci si sarebbe potuto aspettare squarci surreali al resto del contesto stilisticamente verista. Minuzie di fronte al potenziale espresso da un’opera seconda talmente ambiziosa e riuscita, in grado di convincere anche quando mette il suo protagonista a battagliare con l’apparizione martoriata di Gesù Cristo.