C’ERA UNA VOLTA IN INGHILTERRA di Shane Meadows

REGIA: Shane Meadows
SCENEGGIATURA: Paul Fraser, Shane Meadows
CAST: Robert Carlyle, Rhys Ifans, Shirley Henderson
NAZIONALITÀ: UK
ANNO: 2002 
TITOLO ORIGINALE: Once upon a time in the Midlands

AMORE DI POVERTÀ NON CONOSCE GUERRA

Quasi un decennio di cortometraggi, Ventiquattrosette, A room for Romeo Brass e C’era una volta in Inghilterra, prima del capolavoro-distillato Dead man’s shoes. E nello spogliarsi, nel giungere alla violenza/vendetta pura, all’urlo provinciale d’amore (fraterno) di quest’ultimo, eliminare, trattare (chimicamente), separare dal superfluo, passare per l’amore classico ma obbligato, quello fatto di rinuncia, compromesso, errore, relegazione proletaria d’incompiuta volontà, reso inautentico dalla gestazione tutta organica con la realtà. Prima che le scarpe dell’uomo morto si sporcassero di fango e sangue e perfezione del violentarsi ed allucinarsi tranciando via per farsi payback e disperato sentimento cristallizzato, eccoli tutti i limiti, uno per uno. Se in Dead man’s shoes l’elevarsi e il compiersi possono (devono) avvenire è perché C’era una volta in Inghilterra parla degli ostacoli, dell’impossibilità di tempeste autentiche nel verismo castrante: vivaio di desideri spezzati, di arrancare consapevolmente vano, di passeggiate attraverso il romanticismo in una stanza chiusa, fatta di città, salvataggi (d’una vita tranquilla), palliativi e pallore del familiare, rimorsi, soluzioni che non possono essere definite e definitive, delle correzioni storte a deviazioni che non possono essere (e non sono mai state) simmetriche.
Odora di b(u)on(a volon)tà, C’era una volta in Inghilterra: personaggi che si muovono dentro un cuore fatto da un ventricolo ipertrofico ed uno sostituito da una pietra sporca ed inquinamento, vincente sul primo. Muoversi di Meadows negli spazi e tra i volti congeniali, foto sbiadita per raccontare (e forse crocifiggere, e di certo isolare) l’esistere sbiadito a sua volta, quello degli ideali(smi e delle idealizzazioni) nati ostaggi di compromessi. Guerra, forse. Vittoria, mai.

Tutti cercano, e trovano, e smarriscono, ma a metà, e Meadows non dà una luce da rincorrere, in consapevole miseria. Non si perde e non si vince, nel Cinema di Meadows: c’è l’angelo nero di Dead man shoe’s che compie, i putti alati punk di This is England che girano in tondo, e quelli di C’era una volta in Inghiterra hanno le ali grigio smog e non possono nemmeno volare, cielo di plastica Midlands addosso cui hanno già sbattuto e che non guardano più come lo conoscessero a memoria, e noi vediamo la vita-convalescenza a cui sono condannati. Prima ancora della speranza, Meadows nasconde nel maltempo (cronologico) l’oggetto stesso da sperare, allontana gli eroi e gli antagonisti rendendo tutti protagonisti o tutti comparse (rispetto alla desolazione onnipresente), elimina e tesse solamente il sorriso della rassegnazione, dell’accettabilità, della povertà ladra di spazio all’esaltazione, come di respirare senza bisogno di un cuore che batta, come di vivere senza avere il potere di lasciar vivere nessuno, sommessi e sommersi uno per uno, come che tutto sia falso e vada bene così, incapsulati tutti i visi nel guscio/crosta working class, sotto la patina della rassegnazione, senza compiacimento registico – il feticismo pseudosociologico che Meadows non ha mai avuto – per un aldilà cinematografico disincantato invece che per un raccapricciante reale aldiquà, per i fantasmi narrati dei vivi inesistenti.

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