MARLEY di Kevin Macdonald
REGIA: Kevin Mcdonald
CAST: Ziggy Marley, Rita Marley, Cedella Marley, Jimmi Cliff
NAZIONALITÀ: UK/USA
ANNO: 2012
USCITA: solo il 26 giugno 2012
«Give’em the boot, the roots the radicals
Give’em the boot, you now i’m radical
Give’em the boot, the roots
The reggae on my stereo»
Rancid, Roots Radical
Nel bene e nel male, l’ultimo Kevin Macdonald ruota attorno ai mille, metaforici significati del termine meticcio. Parola chiave indispensabile per accedere a Marley, né più né meno come l’infinito sopravvivere si qualifica(va) come verbo reggente di Pearl Jam Twenty. Marley rintraccia il suo protagonista all’interno delle trasversalità di vita, contraddittorio solo in superficie: figlio mulatto, “bastardo”, prima rinnegato poi idolatrato. Non solo dal suo pubblico, ma persino dall’upper class di Kingston. Questione di colore. Di pelle.
Macdonald approccia all’icona deciso a scavare dentro e oltre la stampa per t-shirt, ne sfrutta ogni angolazione e profilo (familiare, sociale, ideologico, filosofico, (a)politico, musicale) al fine di riportarla sulla terra: tra la sua gente; suggerendo umani difetti allo scopo di amplificarne lo status di santità popolare. L’ultimo Re di Scozia è il trampolino, asse che vibra fin dall’incipit di schiavista memoria, nonché puntuale eredità dinanzi all’armato dibattito tra destra e sinistra giamaicana, infine inevitabile richiamo al cospetto dello Zimbabwe indipendente. Bob Marley è l’ago della bilancia, elemento storico di congiunzione, in quanto creativa scintilla di un genere stradaiolo («il reggae sono 3 battute anziché 4»), per tutti orecchiabile: figlio dell’incontro tra funk, jazz e R&B.
Un Elvis per donata eredità musicale, un Lennon per l’immaginario popolare a venire. Eppure umano, Marley. Tanto simile allo sconosciuto padre genetico nel vivere, con ostentata poligamia, la relazione di coppia: Marley è lo stessa persona che “approfitta” di una principessa africana, salvo fermare, da solo su un palco, il politico conflitto che insanguina la sua terra. L’uomo dietro al santino da bancarella, questo interessa e preme Macdonald. Ne consegue che Marley sia, come del resto il penultimo Crowe, più biografico che cinematografico, nonostante modus operandi e una certa riverenza di fondo ricordino l’ammirazione tra le righe di The future is unwritten, sebbene Julian Temple resti, per Macdonald, inarrivabile; proprio per le qualità del primo, in grado di tirar fuori sempre e comunque della fiction, anche dal biopic.
Ciò che a Mcdonald non riesce, benché Bob Marley resti cuore pulsante, più forte di un avvio al diesel buono solo per i fan più accaniti, comunque resistente a un finale che troppo concede, proprio sui titoli di coda, alla glorificazione buonista del musicista. Marley resta nel mezzo, immortale, malgrado il suo regista glissi sull’impatto londinese che il giamaicano e la sua musica ebbero sulla Londra incendiata dal punk (vero Don Letts?), subito dopo aver stupito il pubblico tutto, optando coraggiosamente per due versioni, quelle di No woman no cry e Redemption song, piacevolmente inattese in quanto offerte così: ancora embrionali.