4 MOSCHE DI VELLUTO GRIGIO di Dario Argento

REGIA: Dario Argento
SCENEGGIATURA: Dario Argento, Luigi cozzi
CAST: Michael Brandon, Mimsy Farmer, Jean-Pierre Marielle, Bud Spencer
NAZIONALITÀ : Italia, Francia, Germania
ANNO: 1971
USCITA: 17 dicembre 1971

VIA FRITZ LANG, CITTÀ: LA STATUA (CHE) URLA (ANCORA)

L’atto terzo dell’Argento prima maniera è custode di un fascino che trapassa il cinematografico. Portatore (in)sano di spinte emotive prossime all’introspezione, conseguenza della difficoltà di visione capace, per 18anni circa, di renderlo quasi animale in via d’estinzione. Tanto che per apprezzarlo appieno, così da assaporarlo fino in fondo e farlo nuovamente proprio, sarebbe cosa buona e giusta (ri)guardarlo nell’unico modo possibile fino a qualche tempo fa, ovvero spolverando la vecchia VHS utilizzata per registrarlo da Rete 4 nel lontano 22 febbraio del 1991.

4 mosche di velluto grigio è preludio di ciò che (a)verrà con Profondo Rosso. Improvvisa inversione a U all’indomani del rigore a tratti ingessato de Il gatto a 9 code, quindi energica sterzata verso la messa in scena libera, e insofferente, (d)alle regole dell’omicidio. 4 mosche di velluto grigio resta uno dei migliori Argento di sempre: audace, franco, schietto, sincero, disequilibrato, lacerato dentro e ribelle fuori come solo gli esordi sono capaci di apparire. Eppure cinema matrimoniale, tra le righe dolorosamente autobiografico, quindi maturo, come fosse catartica e creativa valvola di sfogo, anche per questo satura di indizi, che ancora sanno del cassetto dei ricordi nel quale il suo autore usava conservarli: La statua che urla di Fredric Brown (da lì arriva il “Dio” di Bud Spencer), John Barleycorn Must Die dei Traffic, Mattatoio 5 (citato in un dialogo attorno ai funerali di un cuoco francese), L’alibi in nero di Cornell Woolrich (che ispira la morte di Marisa Fabbri), chitarre Fender, Jaguar-bass e, sopratutto: L’uomo leopardo, pellicola che il terzo Argento celebra ben oltre l’omaggio, trasformando in un breve, ma indimenticabile film nel film l’infatuazione per Tourneur; di fatto destinando all’immediata immortalità cinefila la sequenza del parco (non ce ne voglia Sergio Martino e il suo Lo strano vizio della signora Wardh), grazie all’uso, accelerato, ellittico e inquietante, della componente tempo.

La “new wave” italiana del thriller, inaugurata ad inizio decennio proprio da Argento, già si misurava, sperimentandole, con efferatezze che molto mostravano rispetto a 4 mosche…; al contrario utilizzato dal cineasta romano per sottolineare, e accentuare, la verve genuinamente popolare del proprio cinema. Il terzo Argento è affollato da personaggi caricaturali, in bilico tra il ridicolo e l’avanspettacolo: dal postino, al vicino di casa destinatario di sole riviste porno, passando per il filosofeggiare inutile di alcuni ospiti della coppia Brandon-Farmer. Figure di contorno, che non sono certo da meno se paragonate alle chiavi attoriali del racconto, comandati nella vicenda da un musicista parassita, che vive dei soldi ereditati dalla ricca moglie, spalleggiato nelle “indagini” da un paio di barboni e da uno squattrinato detective privato a dir poco effeminato. Da migliore esempio non sono certo gli “antagonisti”, uno su tutti Calisto Calisti, d’improvviso rivelato, vivo e vegeto, mentre trangugia un primo in trattoria: alternando il boccone al laido palpeggio della cameriera di turno; quasi ci si trovasse, per trivialità dei gesti, nel sottobosco criminale, borgataro e ignorante de I padroni della città di Fernando Di Leo.

Gran parte della profondità di messaggio del terzo Argento, è affidata proprio alla sua capacità di sondare l’inutilità dell’universo umano, al fine di rivelarne un’immagine meritevole di sola derisione e mortale punizione, severo ma giusto castigo nei confronti dell’inettitudine dei suoi terreni abitanti; cartolina quest’ultima, abbozzata durante 4 mosche di velluto grigio e pronta a cristallizzarsi nell’immediato futuro (anche) con Profondo Rosso, attraverso l’apoteosi dell’incontro tra bizzarro e macabro che andrà a caratterizzarlo.

Fin qui la sostanza metaforica di una pellicola, che inizia ad assumere le sembianze di pietra angolare se avvicinata all’Argento venturo: di certo non di minor interesse una volta scandagliata nel suo aspetto squisitamente tecnico, più che mai estroso e folle(ggiante) nell’approcciare (al)la macchina da presa; sorta di spirito libero guidato dal vento e dall’intuizione del momento, raramente accademico, mai canonico, incessante nel perseverare la sua provocazione artistica. Un mood sperimentale, quello riconducibile a 4 mosche di velluto grigio, che rintraccia il suo esercizio definitivo durante il “moviolistico” finale, effetto ottenuto attraverso l’utilizzo del modello Pentazet: velocità di ripresa di 18 per 30000 fotogrammi al secondo, immolati sull’altare di un ralenti. Argento è già oltre, la prossima frontiera risponderà al nome degli esperimenti f(h)otocromatici di Suspiria.

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