WINTER VACATION (HAN JIA) di Li Hongqi
REGIA: Li Hongqi
SCENEGGIATURA: Li Hongqi
CAST: Bai Junjie, ZhangNaqi, Bai Jinfeng, Xie Ying, Wang Hui, Bao Lei
NAZIONALITÀ: Cina
ANNO: 2010
TITOLO ORIGINALE: Han Jia
PAUSE (CARICHE) DI RACCONTO
Un incrocio tra strade, deserte, i muri di un edificio industriale sullo sfondo, il cielo grigio, una voce diffusa da altoparlanti invisibili ripete continuamente lo stesso messaggio (propaganda? allarme? pubblicità? A chi non comprende il cinese non è dato saperlo) tre ragazzi si incontrano e parlano di compiti a casa da fare durante le vacanze scolastiche e di una ragazza che lavora al mercato, poi decidono di andare a trovare un loro compagno a casa sua. Han Jia, Pardo d’Oro a Locarno 2010, comincia così, con la descrizione di un contesto: spazio, tempo, relazioni.
Li Hongqi ferma la sguardo dello spettatore sulla cristallizzazione di una realtà cinese post-maoista e taglia il punto di vista secondo le linee interpretative di un gruppo di ragazzi sospesi nel limbo della non-esistenza costituito dalla pausa scolastica invernale. Le coordinate del racconto sono dunque la noia e il vuoto di momenti che i personaggi sembrano far fatica a riempire di parole, che diventano un intermezzo ai silenzi.
Parole, silenzi, pause: Han Jia è un film fatto di pause, scritto con una perizia sopraffina che, dopo un principio di disorientamento e rischi di tedio, instilla in chi guarda una curiosità che cresce negli intervalli tra una battuta e l’altra. Senza quasi accorgersi, ci si ritrova ad attendere con ansia la rottura del silenzio che porterà alla battuta successiva. Il tappeto sonoro, fatto di voci fuori campo, rumori di sfondo, musiche sussurrate, serve a rafforzare questa creazione della tensione dal nulla che è il miracolo realizzato da una regia studiata nel dettaglio e che non scivola mai oltre i paletti che si è posta. Si fa presto a parlare di rigore cinematografico, e comunque non si riesce mai a parlarne in maniera efficace. Questo film mostra cosa sia, dal vero, il concetto di rigore, di partire da un presupposto e mantenerlo per tutta la durata del racconto senza venirne mai meno.
Se il motore della tensione è qui la pausa narrativa, quasi a scardinare le convenzioni della sceneggiatura classica, spesso affetta dall’horror vacui del silenzio, che rifugge come la morte delle sue stesse basi, le armi di Li Hongqi per incatenare l’attenzione a una storia che non c’è sono lo straniamento e l’ironia. Gli eroi del pubblico diventano prestissimo un bimbo dalle guance paffute e l’espressione da poeta maledetto e stanco della vita, che viene continuamente zittito da tutti i famigliari e dichiara candidamente (e con serietà estrema) che la sua aspirazione per quando sarà grande è quella di diventare orfano, una donna che spende cinque minuti a scegliere un cavolo dalle bancarelle del mercato, per poi mercanteggiare con abilità tutta cinese uno sconto sul prezzo al chilo, un ragazzo che convince la sua morosa a non lasciarlo perché tanto lei non è certo una cima e nemmeno dedicandosi di più allo studio potrebbe migliorare i suoi voti. Gente di un altro mondo, caratteri di una commedia dell’assurdo trapiantata nel grigiume della provincia della Cina settentrionale, voci che ti aspetti da un momento all’altro possano uscirsene con uno scambio del genere: “e la cantatrice calva?”, “si pettina sempre dalla stessa parte”.
Han Jia non è una storia, ma lavoro sul linguaggio; non è dinamica di personaggi, ma indagine sull’immobilità: una lezione sui tempi del cinema, sull’uso delle pause, e non come complemento narrativo o ragione di stile, ma come sostanza stessa del cinema, di un cinema (possibile). La composizione di audio e video che si fa film, la direzione degli attori (in gran parte non professionisti), l’uso dell’umor nero, l’alienazione dolce e tematica come strumenti mediatici e, perché no, di intrattenimento. Quello di Li Hongqi è un esperimento cinematografico che parte in sordina ma finisce per dimostrarsi un riuscito esempio di come dirigere un film con coerenza e puntualità estreme: passando da un vincitore (Han Jia, a Locarno) a un altro (Somewhere, a Venezia), quella di Li è una lezione di cui potrebbe (dovrebbe) far tesoro la regista svogliata che ci ha ammorbato con le storie inutili e raccontate male di una star annoiata, che di nome fa Sofia e condivide il cognome (ma giusto quello e una metà del patrimonio genetico) con uno dei più grandi registi viventi.