SHOTGUN STORIES di Jeff Nichols
REGIA: Jeff Nichols
SCENEGGIATURA: Jeff Nichols
CAST: Michael Shannon, Douglas Ligon, Barlow Jacobs, Natalie Canerday
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2007
LE COLPE DEI PADRI
Rovistare tra i rifiuti cercando la poesia, frugare nella spazzatura inseguendo la bellezza. L’esordio dietro la macchina da presa di Jeff Nichols è un inno a trascendere le apparenze: un diamante raccolto in una pozza di catrame che, ripulito dalla patina di sporco in superficie, risplende di grezza luce propria. Una storia semplice, malinconica, minimale e al tempo stesso elegante d’animo, in grado di scalfire anche la scorza più dura: succede quando William Shakespeare incontra il William Wyler de Il grande paese (o il Donald Hamilton dell’omonimo romanzo, fate voi) per dare vita a quello che, probabilmente, rappresenta, seppur camuffato, l’ultimo grande western partorito dalla patria cinematografica del genere per eccellenza.
Shotgun Stories è, sopra ogni altra considerazione, una disperata dichiarazione d’amore rivolta al cuore degli Stati Uniti e, di rimbalzo, un personale e sentito omaggio alla tradizione, prima storica e solo successivamente cinematografica, dell’America: una volta terra di cowboy solitari, ora culla di perdenti ai margini della sua rurale provincia, losers intrappolati in quell’entroterra honky e white trash che una volta si usava chiamare frontiera. «Questa città è un buco di culo» – «E’ come se ci appartenesse» – «Se questa città fosse mia la venderei, noi non abbiamo un cazzo di niente».
Nichols riversa secchiate di antieroico romanticismo lì dove sembra non poter regnare altro che non sia volgare e arresa rassegnazione a una vita che baratteresti volentieri con un biglietto di sola andata per qualunque (altro) posto; così facendo permette a Shotgun Stories di rileggere, con originalità d’autore, la mitologia della faida tra Hatfields&McCoys, regalando al grande schermo un racconto che ha l’aspetto di un brano del Bruce Springsteen di Nebraska: fantasma sonico quest’ultimo, che sembra possedere persino l’essenziale accompagnamento musicale magistralmente allestito dall’incontro tra i country-rocker Lucero e l’indie band Pyramid; per una colonna sonora sapientemente asciutta e “a tempo” con le immagini, capace di spezzare l’arrangiamento volutamente acustico tramite gli improvvisi ingressi di un funereo violoncello.
Due famiglie, lo stesso padre. Da una parte i reietti, i dimenticati, gli abbandonati. Dall’altra i figli del secondo matrimonio: quelli amati, accuditi, fortunati. Baciati dalla vita. Gli Hayes si incontrano al funerale di chi ha contribuito a metterli al mondo, la confessione sincera del primogenito accende la miccia di un crescendo che sembra conoscere un solo epilogo: ritorsione, vendetta. Tragedia. Il colpo di genio sta nel paradosso portante: due famigli(astr)e, lo stesso cognome, identico padre. Eppure in lotta tra loro in onore dell’odio/amore per il genitore maschile. Come sei i Capuleti passassero il tempo a pianificare il modo migliore per sterminarsi, l’un contro l’altro armati.
Nichols impugna la macchina da presa asciugando l’immagine fino all’essenza, con fare quasi lisergico immerge chi guarda in un viaggio d’esterni infiniti e note avvolgenti, consegnando a un sublime Michael Shannon le chiavi di un racconto dilatato dove tutto, nonostante un’inebriante sensazione d’immobilità di fondo, scorre sul filo dell’amara leggerezza, scivolando sulla grana sottile di un fascio di nervi che, sino alla soglia di un finale spiazzante, si traducono sullo schermo come (apparente) calma dopo la tempesta. Questione di sguardo, ciò che consente a Nichols di disegnare un affresco di suoni e colori da togliere il fiato: paragonabile, per poesia di provincia, al Malick de La rabbia giovane. Un pezzo considerevole degli Stati Uniti riflesso negli occhi, sconfitti ma fedeli, di tre fratelli: Son, Kid e Boy. Uniti nella loro condizione di rifiut(at)i senza famiglia, privi di madre e dimenticati dal padre. Eppure assieme, forti di un legame di sangue magari piegato dalla vita, ma in grado di sconfiggere la morte.