SOUND OF MY VOICE di Zal Batmanglij
REGIA: Zal Batmanglij
SCENEGGIATURA: Brit Marling, Zal Batmanglij
CAST: Christopher Denham, Nicole Vicius, Brit Marling, Richard Wharton
NAZIONALITÀ: USA
ANNO:2011
LA DONNA CHE FUGGÌ DAL FUTURO
Peter e Lorna stanno realizzando un documentario sul sottobosco delle nuove sette religiose e riescono a infiltrarsi, fingendosi adepti, in una di quelle più segrete e impenetrabili la cui guru, Maggie, sostiene di provenire dal futuro, per la precisione dal 2054.
Si potrebbe derubricare a prima vista questo piccolo film indipendente a basso budget tra i Cloverfield e Chronicle, ovvero tra i formattatori della fantascienza, che vogliono reinventare e rielaborare i cardini del genere, in questo caso i viaggi nel tempo, senza effetti speciali, ma al contrario in chiave minimalista e comunque più credibile. In realtà è la stessa attribuzione al genere fantascientifico a essere dubbia, dipendendo dalla veridicità o meno del racconto di Maggie, del suo essere una ragazza del futuro o una millantatrice. Di più, la classificazione di film fantascientifico si qualificherebbe come uno spoiler, rimanendo legata alla risoluzione del finale. [Spoiler da qui in poi] Sembra convincente l’emozione di quella rivelazione nell’ultima scena, di quel gesto di saluto infantile tramandato da madre in figlia e diventato poi un segnale nella setta. Il fondamento fantascientifico risiederebbe così in un puro e semplice fattore emozionale. La verità è in quell’intenso gioco di sguardi che non possono mentire. Solo questo, nessun miracolo, nessuna alterazione del “continuum temporale”, nessun paradosso alla Star Trek, nessun trabiccolo wellsiano. Il pubblico diventa così un altro adepto della setta. Ma razionalmente potrebbe anche non essere così, si potrebbe trattare dell’ennesima messa in scena oppure il riconoscimento potrebbe essere dovuto ad altri motivi. Mentre fino a quel momento il film aveva condotto alla sensazione opposta, dopo che Maggie non si era dimostrata in grado di cantare una canzone del futuro, dimostrando così di essere davvero una viaggiatrice nel tempo, ripiegando su Dreams dei Cranberries, una canzone degli anni novanta. E la narrazione del film è piena di domande che non trovano risposta. L’ambiguità è massima ed è di quasi tutti i personaggi. La detective di colore chi è veramente? Che sia anche lei venuta da futuro a riprendersi Maggie? Perché la bambina indossa il cappello e le vengono fatte iniezioni nelle dita dei piedi? Di quale patologia soffre? Ma soprattutto come facevano i guru della setta a sapere che la bambina era un’allieva di Peter? Tutto fa presupporre che i coniugi servissero da esca e siano cascati a loro volta in una sorta di complotto. Un complotto ordito da chi peraltro sembra conoscere in anticipo le loro mosse, come suggerito dal fatto che la “santona” insegna agli adepti il rito del vomito proprio quando Peter porta nello stomaco una telecamerina che ha ingerito.
La coppia Lorna e Peter sembra ricadere nel modello di Rosemary e marito di Rosemary’s Baby, nel momento in cui il secondo vacilla di fronte alla forza manipolatrice di Maggie, anche senza cedere fino in fondo. Ma è evidente che Peter sia sedotto dalla sedicente donna del futuro. Il marito e la moglie decidono di credere in cose diverse, lei fidandosi della detective dell’FBI, o presunta tale, lui, in parte, nella santona. Si rappresenta così la dicotomia tra l’essere una persona di ragione e una di fede, laddove anche la ragione potrebbe essere una fede. Dietro a un film dalla sceneggiatura a cruciverba aperto, che può essere riempita dallo spettatore in vario modo, si cela una lucida analisi sui meccanismi intimi che presiedono al funzionamento, e alla nascita, di una religione o di una setta che differisce dalla prima solo in termini quantitativi o di non antichità. Meccanismi che si fondano sulla sospensione dell’incredulità (come il cinema), tra miracoli e fideismo e sulla ritualità. La richiesta da un lato di fenomeni eclatanti come segno del divino e l’istanza, dall’altro, di avere fede anche in mancanza di queste dimostrazioni. Possono sembrare assurdi e ridicoli i riti e le simbologie della setta, il vomito o mangiare lombrichi. Ma non apparirebbero allo stesso modo il segno della croce o l’eucauristia a un extraterrestre o se non fossero consolidati nel tempo? E la genesi di questi riti può essere banalissima, come un gesto di un gioco di bambini. Con Sound of My Voice il regista Zal Batmanglij riesce a trascinare il pubblico in una discesa fideistica mantenendo uno sguardo antropologico sulla banalità della religione.