GRANDI SPERANZE di Mike Newell

REGIA: Mike Newell
SCENEGGIATURA: David Nicholls
CAST: Jeremy Irvine, Helena Bonham Carter, Ralph Fiennes, Holliday Grainger, Jason Flemyng, Robbie Coltrane, Sally Hawkins
NAZIONALITÀ: USA, UK
ANNO: 2012
USCITA:  6 Dicembre 2012

SPOGLIE POST-POTTERIANE

L’epicità tragica del quotidiano, il romanticismo sfacciato e sferzante, lo iato doloroso tra classi sociali in mutazione, il colosso dell’industrializzazione e dello spietato affarismo, il pensiero utilitaristico: Charles Dickens, padre onorario e iniziatore di almeno la metà dei grandi romanzi del tardo Ottocento e oltre, addusse a tale scottante portata concettuale un tono amaramente umoristico e pittorescamente sbilanciato, all’interno dell’innovativo racconto episodico. Il cinema lo bazzica da tempo immemore e ora è la volta – l’ennesima – di  Grandi speranze, una delle sue opere più vigorosamente ombrose e articolate.

Mike Newell prova a rievocarne i sintagmi costitutivi ma suo malgrado causa, in primo luogo, una torsione controproducente che, per via del contagio generazionale e di una parterre di attori e rispettivi ruoli pressoché immutata (Ralph Fiennes l’ambiguo, Helena Bonham Carter la lugubre svitata, Robbie Coltrane il mentore e cicerone, persino Jessie Cave l’innamorata senza speranza), per non parlare della mano dietro la mdp (Newell è responsabile di uno dei più incolori film della saga), lo fa sembrare nientemeno che una ramificazione di Harry Potter. Genera uno straniante dejà vu cinematografico, quando al contrario la Rowling aveva mutuato da Dickens la scacchiera narrativa e le direttive dei personaggi (aggiornandole e accomodandole alle esigenze teen-magic). Facezie di cui evidentemente Newell e Nicholls si scordano, o credono di poter trattare adeguatamente: ma il ‘nuovo’ Grandi speranze è un pasticcetto le cui venature lucenti e talora efficaci (soprattutto nella prima parte) fanno rimpiangere il rinverdimento espressivo che avrebbe potuto rappresentare. Il risultato è, così, insistentemente derivativo, riduce alla fiacchezza una materia incandescente che se trattata diversamente avrebbe potuto, con i medesimi elementi, elevare a suo favore il cortocircuito, non necessariamente attualizzandolo ma nemmeno cadendone apaticamente preda.

Eppure. L’impianto visivo d’apertura si rivela, appunto, gamma spettrale da fiaba horror e notti di procella e fortunale (un orfano inviluppato in un cimitero venato di muffa, un territorio acquitrinoso e sinistro, un castello in rovina infestato dalla sua stessa padrona, una principessina dagli ignoti natali imprigionata in un cuore di ghiaccio). E ha dalla sua un’intrigante parvenza scenica: una contaminatio di arti figurative, tra il grottesco gotico di Miss Havisham, le iatture fiamminghe del palazzo, i colori goyani tumultuosi e furenti delle lotte nel fango.

Tutto questo solo nel preludio, appena prima che l’imberbe fanciullo Pip faccia il suo ingresso in società e venga irretito dagli intrighi sottobanco di una cerchia elitaria costruita sul nulla: è lì che l’andatura insinuante del film s’incaglia e appiattisce nei vitrei languori dei palpitanti, teatralmente enfatici Irvine e Grainger, e in una totale mancanza di valorizzazione dei picchi drammaturgici dell’opera. Come pure della griglia di temi dickensiani, che si dipanano dall’iniziazione-(dis)umanizzazione e formazione di Pip, soltanto sfiorati, fino all’abiezione dell’essere umano, l’irriducibilità del proprio status vivendi (un marchio sempiterno), l’ambiguità della giustizia, la ferita antropologica di figli che cozzano contro padri controversi, putativi o di sangue. Soprattutto, l’eterna spinta conflittuale perpetrata da tali adulti, simulacri del fallimento, che s’interfacciano, manipolano e distruggono i giovani senza mai davvero scontrarsi con loro e/o incontrarli (Estella e Miss Havisham, Estella e Magwitch, Pip e Jo, Pip e Miss Havisham, Pip e Magwitch).

Ulteriore plateale ammiccamento a universi cinematografici altr(u)i – non tanto fuori luogo quanto mal amalgamato – è la Miss Havisham della Bonham Carter, che sembra al solito convinta di trovarsi in un film del marito. E dire che il suo personaggio è il più scenicamente invitante: sposa cadavere la cui maledizione è (parzialmente) autoinflitta, prigioniera di una crisalide nuziale ormai vetusta e sfiorita, in graduale disfacimento. Necromantica, presenza fantasmatica à la Baby Jane, che s’infiamma e incenerisce in una delle scene su carta più potenti, la cui forza è tuttavia inceppata dalla meccanicità di un’esangue mise en scène.

Un tentativo personale di trasfigurazione interpretativa di un classico letterario l’ha recentemente praticato l’Andrea Arnold di Fish tank con Cime tempestose, annegandolo nel fango malmostoso e nelle folgori tattili delle passioni; imperfetta ma stimolante. Dopo di lei (e in attesa dei Miserabili, di Anna Karenina, del Grande Gatsby), quello di Newell è un Dickens menomato di carne e disperazione, dunque un passo indietro che rimane invischiato nella propria impotenza, proprio come la gabbia penzolante che fa da interludio (grossolanamente) simbolico e che Pip – ma non Nicholls né Newell – alla fine guarda in faccia e forse riconosce.

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