C(o)unt to Zero Dark Thirty: THE LOVELESS di Kathryn Bigelow
REGIA: Kathryn Bigelow, Monty Montgomery
SCENEGGIAURA: Kathryn Bigelow, Monty Montgomery
CAST: Willem Dafoe, Robert Gordon, Marin Kanter, J. Don Ferguson, Tina L’Hotsky
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 1982
RAGAZZI PERDUTI
Anni ’50 americani e nouvelle vague francese. Rockabilly e virilità godardiana. Il primo Kathryn Bigelow è scarno, essenziale ma coloratissimo: la versione illuminata del successivo Il buio si avvicina, verosimilmente il seme primigenio di quest’ultimo. Perché c’è del vampirismo in questo film, almeno nell’accezione che la Bigelow ha dello stesso.
Senza casa e senza Dio. Pallidi, emaciati e perennemente in fuga, sono i vampiri di Loveless. Guidati dal cadaverico William Dafoe, capobanda pelle e ossa che dei personaggi futuri della Bigelow possiede ogni caratteristica: ambiguità, insoddisfazione alle regole, tensione caratteriale verso l’atto estremo, alienazione. Dietro la maschera del ribelle senza causa, potenzialmente pericoloso, comunque violento e non “innocuo” come il James Dean di Nicholas Ray, si nasconde la personalità deviata di un leader, comando di una ghenga di teppisti dal serramanico facile: reietti braccati, vagabondi in fuga; proprio come i protagonisti de Il buio si avvicina. Unica variante la capacità di tollerare la luce del sole.
Kathryn Bigelow sacrifica la macchina da presa in movimenti circoscritti, concentrandosi su dettagli dei costumi: la mise di pelle, gli stivali, le borchie, gli occhiali scuri, i tacchi a spillo, le acconciature; per poi lasciare il campo alla fotografia, che pastello s’impossessa di ogni angolo, ingorda cacciatrice di sagome bidimensionali: caricature pop, comparse scartate da un video dei Misfits.
L’intento della Bigelow è giovane, sicuramente inesperto, forse imperfetto, eppure trasparente. Limpido. Immortalare il wild side degli Stati Uniti “alla francese”, castigando un film potenzialmente on the road nelle aree di sosta, così da amplificare il castrato desiderio di fuga dei suoi interpreti, evidente modello d’ispirazione per gli omaggi a venire: Ragazzi perduti di Joel Schumacher o The Violent Kind dei Butcher Brothers, per citarne due. Vampiri assetati non di sangue, bensì di nomade ribellione, carburante per le loro anime dannate, qui imprigionate in interni immobili e bigotti, attraversati da instabili fruscii radiofonici. Empasse quest’ultima, spezzata di rado da qualche centellinato “camera car”. Perché in Loveless, se c’è un Hopper citato, non è certo il Dennis di Easy Rider.
Seppur allo stato embrionale, il cinema della Bigelow inizia a rivelarsi: corpi e oggetti si fondono in un tutt’uno feticista, attraverso un movimento concentrico che celebra i primi grazie al risalto concesso ai secondi; il binomio si fa plastico, figurato, immortalato nella cornice di una regia formalmente chiusa, quasi volesse animare le istantanee di una vecchia rivista giovanile ritraente pin up e bad guy brillantinati.
Infine il buio, lo scontro finale. Il selvaggio diretto da un corteggiatore di Sam Peckinpah rarefatto nei tempi, ovattato nei suoni e imprigionato nello spazio. Per una chiosa che è già quella di Blue Steel e addirittura oltre. Con tutta probabilità Vampires di John Carpenter. Perché, è bene ricordarlo, c’è del vampirismo in questo film.