FRANKENWEENIE di Tim Burton
REGIA: Tim Burton
SCENEGGIATURA: Tim Burton, Leonard Ripps, John August
CAST: Catherine O’Hara, Martin Short, Martin Landau, Winona Ryder, Christopher Lee
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2012
USCITA: 17 gennaio 2013
IL REGNO DOVE NESSUNO MUORE
Ad oggi, ormai, amare Tim Burton equivale a rimpiangerlo. Equivale a sanguinare malinconia, a mangiarsi mani e sogni sulla lirica freak che fu e sull’immaginifico struggimento di cui Frankenweenie è propaggine nostalgica, precipitato discontinuo, rivolo pallido, frantumazione ad intermittenza discendente.
O quantomeno prova ad esserlo, risultando a conti fatti auto-remake in calce, proto-reboot di variabili immobili e immote, sequel fattuale di tante altre propagazioni burtoniane (non si smette mai di rabbrividire quando un regista diventa il proprio aggettivo (minimo comun) denominatore, in questo caso marchetta in atto, pietra tombale di una poetica autoridottasi a mera gadgettistica visiva).
Prima snoccioliamone i movimenti positivi, come si fa con le peggiori diagnosi: fuori le costanti appiccicose e appiccicaticce Depp e Carter, dentro Ryder e Landau, a rievocare col rumore di fondo del doppiaggio i bei tempi andati della schizofrenia narcotico-sbrindellata di Beetlejuice e del classico (ri)edificante e arguto di Ed Wood. Di cui rimangono soltanto le increspature vintage e la copertura naif dell’artigianato, in un disequilibrio che pure parte da una corazzata compatta di autoriferimenti, auto citazioni, omaggi, sdilinquimenti, circoli di approdi e ritorni (nominali, stilistici, narrativi etc.).
Eppoi, attraverso tal Mr. Rzykruski per qualche minuto Burton si scrolla di dosso la ripetitività sterile e carbonizzata, ammicca, sdrammatizza – forse con un autogol o forse con un mea culpa (“Hai amato meno la tua creatura la seconda volta?”) – e delinea un personaggio potenzialmente d’alta statura (“la gente vuole le risposte della scienza, ma non le sue domande”); peccato esca di scena troppo presto cedendo il posto alla mattanza pop-corn/citazionistica.
Ma è stanco, Tim, lo è ripetutamente, gira attorno ai suoi feticci come un cane che si morde incantato la coda, come un bambino che pur nella coscienza scombiccherata e sfrenata del meraviglioso dopo un po’ si stufa di giocare sempre con gli stessi balocchi, li pasticcia, gli cambia vestiti, gli scambia le parti, ma sempre loro sono e hanno sempre meno da dire/mostrare/inventare.
È stanco, Tim, ma persevera – forse più ingenuamente(?) che diabolicamente – nella reiterazione del riciclo, nella replica ombelicale, nelle figurine usa e getta, nell’inutilità drammaturgica: vedasi la biondina dallo sguardo storpio tra Luna Lovegood e la Staring Girl di Morte malinconica del bambino ostrica, la vicina di casa inutile damsel in distress che esaurisce la sua funzione nel momento in cui ci si sbudella dalle risate per l’allitterazione ammiccante del suo nome (Elsa Van Helsing, oh oh oh), tanto il suo modellino svetta già con successo nelle vetrine di un qualsiasi Disney Store.
Andiamo avanti così e facciamoci del male, noi e lui, perché il passato è lo sc(hi)occare della freschezza, inaridito dal presente, e il futuro è un amalgama di luoghi già conosciuti e odori già assaporati, una minestra raffreddata e congelata dall’abitudine, che dapprima intenerisce indistintamente e poi fa incazzare, perché l’effervescenza e la vibrazione dell’atto sono riproposizioni vetuste, e funzionano (parzialmente), ma non stupiscono, non stritolano le viscere né svellono alcun sense of wonder (né horror).
Frankenweenie è un’inerte delusione che si allinea allo standard attuale di Burton formando un grumo complessivo di inceppamento e stand by, un campanello d’allarme che trema ripetutamente senza scoprire la fonte né evocare la melodia del proprio suono. Tematiche ed elementi compositivi sono indistricabilmente connessi ad una staticità irrisolta che nel suo cinema segnala un empasse che ristagna negli ultimi quattro anni e più, esalante fetori disneyani (Alice) e uno sciatto inceppamento nell’ingranaggio dei topoi (Dark Shadows, atomo amorfo sconclusionato e imbizzarrito).
Comunque, ad intestardirsi, con un po’ di sforzo aprioristico, con uno slancio fanatico e scioccherello, ad aspettare, accingendosi a scavare nella superficie impalpabilmente b/n di Frankenweenie, ecco che gli minuti conclusivi arrivano a strapparci qualche battito (il restante minutaggio altro non riesuma, né nei nostri ricordi né tantomeno nelle nostre emozioni): con l’ultimo (in ordine di tempo empatico e fattuale) capolavoro di Burton, La sposa cadavere, Frankenweenie si trova a fare i conti più per la materia costruttiva di partenza che per vera e propria linea continuativa: ma se ne discosta radicalmente nel (letterale) colpo di coda finale.
Laddove Emily, spirito sgualcito e lacrime impossibili, sfibrillava in uno scioglimento catartico – e l’amore era nel volo delle farfalle, lo schermo si apriva in uno squarcio iper/impercettivo, e i cuori spezzati venivano trafitti da celeste pietà – stavolta Sparky ci acquieta, e Tim parla al lato infant(il)e degli spettatori/trici, ribadendo che l’infanzia è il regno dove nessuno muore. E dunque, negromante è il cinema che corre in direzione (ostinata e) contraria alla morte, negromanti sono i bambini perduti che non vorranno mai smettere di sognare l’inesistente e di resuscitare ciclicamente i propri desideri.