LA PECORA NERA di Ascanio Celestini

REGIA: Ascanio Celestini
CAST: 
Ascanio Celestini, Giorgio Tirabassi, Maya Sansa
SCENEGGIATURA: 
Ascanio Celestini, Ugo Chiti, Wilma Labate
ANNO: 2010

VENEZIA 2010: FIABA NERA.

L’origine del film è  in tutto e per tutto teatrale: nato da una pièce del 2005, La pecora nera  rappresenta, dopo due documentari realizzati per Fandango (l’invisibile Senza paura e l’amaro pamphlet Parole Sante) il primo approdo alla fiction del talentuoso attore-drammaturgo romano, forse il più dotato del teatro di narrazione contemporaneo. Ispirato alla vera storia di Alberto Paolini, un uomo rinchiuso in un ospedale psichiatrico per oltre 40 anni, La pecora nera – Elogio funebre del manicomio elettrico nasceva dopo anni di ricerche sulla realtà manicomiale mirando a denunciare non tanto le singole  aberrazioni della repressione psichiatrica, quanto, più in generale, l’arroganza delle istituzioni nel tracciare un confine violentemente arbitrario e illusorio tra “matti” e “normali”.  Nell’adattamento cinematografico, Celestini tenta di mantenere l’urgenza espressiva e politica del testo originario nel mostrare come, ad oltre trent’anni di distanza dalla Legge Basaglia, il giogo dello stigma sociale sui destini degli individui non si sia minimamente attenuato. Più che un pamphlet antipsichiatrico, La pecora nera assume così i contorni di una fiaba nera sulla labilità delle etichette sociali, raccontando il punto di vista umanissimo di chi non si sente né matto né normale e di chi, accusato di essere pazzo, finisce per diventarlo. Ma proprio nella decisione di trasporre pressochè integralmente lo stile di scrittura al grande schermo, rimanendo fin troppo fedele alla propria poetica, la traduzione filmica si direbbe a prima vista fallita. Eccedendo nella parola e sacrificando l’immagine, la pellicola esibisce sin da subito gran parte dei tic stilistici del drammaturgo (le ripetizioni cantilenanti, il piglio bambinesco, il lirismo naif),  riconfermandone le doti affabulatrici e il virtuosismo verbale ma limitandosi a fornirne un corredo visivo didascalico e illustrativo, dove le ridondanze di scrittura e l’insistita enfasi sull’atto stesso del raccontare prendono la forma di una voce off invadente e ossessiva. L’immagine sembra uscirne mortificata e impoverita, banalizzata da una struttura a flashback in cui la luminosa infanzia si contrappone, in un alternarsi cromatico fin troppo esplicito, al livido presente (scolpito dalla fotografia di Daniele Ciprì, da tempo diviso dal sodale Maresco). Eppure, quando i toni della vicenda cominciano progressivamente ad appesantirsi d’angoscia, conquistando gradualmente potenza drammatica, anche le ripetizioni cortocircuitali tra immagine e parola, i refrain narrativi e persino l’ ingenuità di sguardo e di struttura trovano un loro senso nell’economia del film, giungendo a svelare con intensità crescente l’inattendibilità della prospettiva bipolare e disturbata da cui stiamo guardando, nonché a giustificarne la semplicità della messa in scena e la logorrea commentativa. “I matti hanno il cervello vuoto perchè protetti non hanno nulla a cui pensare, e il vuoto fa paura.”, si dice nel film. Ma anche il soliloquio incessante e nevrotico è il sintomo di un horror vacui patologicodi una solitudine divenuta logorroica per non dissolversi nel vuoto, per non morire di pazziaDiviene dunque coerente come anche l’immagine si limiti ad offrire un’ulteriore rima alle ossessioni del protagonista/cantastorie, in una mise en scéne spoglia e dimessa, suddita del racconto orale. Certo, a differenza degli spettacoli teatrali del regista – ugualmente privi di musica e intessuti di pura voce narrante -, la ritrosia nei confronti del visivo è qui colpa meno perdonabile, e per le prossime prove cinematografiche di Celestini occorrerà tenerne conto. Ma nel suo esordio ogni particolare, anche ingenuo o imperfetto, sembra  in coerente accordo estetico con la cronaca minimale e soggettiva verso cui tende, la storia esemplare di qualcuno che parla della malattia degli altri per mostrare la propria, sottintesa e sottopelle, pronta ad esplodere tardivamente in follia d’amore palesandosi solo nel mezzo del suo stesso racconto, per riconoscere, quand’è ormai troppo tardi, come la terza persona sottintendeva la prima e i tic degli altri, i propri.  Forse il cinema fanciullesco di Celestininon sarà (ancora) la pecora nera capace di distinguersi dall’amorfo gregge dell’odierno cinema italiano, ma la voce discreta e necessaria da cui è animato è già forte di una poesia e di un’ urgenza proprie.

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