visioni

PACIFIC RIM di Guillermo Del Toro

REGIA: Guillermo Del Toro
SCENEGGIATURA: TravisBeacham, Guillermo del Toro
CAST: Charlie Hunnam, Idris Elba, Rinko Kikuchi, Charlie Day, Ron Perlman
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2013

 IL DOMINIO LUDICO DELLO SPAZIO

L’ultimo film di Guillermo Del Toro è figlio di una piacevole ossessione. Di quelle che quando sei bambino ti rubano tempo ed energie e alle quali da adulto ti continui a sentire in qualche modo legato, come se al loro interno risiedesse tutto il bimbo che sei stato e dunque anche una parte non indifferente dell’uomo che sei ora. Per il geek Del Toro è sempre stata, nella fattispecie, una questione di lotta tra robot, tra buoni e cattivi da far scontrare. Jaeger contro Kaiju, ora come allora. I secondi con la loro origine sommersa, abissale e oceanica a minacciare il mondo e i primi progettati e messi in campo solo per salvarlo. Da un regista che ama Lovecraft e Le montagne della follia probabilmente più di ogni altra opera letteraria e che ha dovuto abbandonare la possibilità di tradurlo sullo schermo (oltre alla cocente delusione patita nella Terra di Mezzo…), risulta difficile se non impossibile non aspettarsi un peculiare taste per un certo tipo di immaginario gotico, vero elemento ricorrente nella carriera di Del Toro e declinato di volta in volta in varie salse: horrorifica, fantasy, videoludica, cinefila, perfino la fantasticheria combinata con la Storia, come nei suoi due film migliori e di sicuro più strutturati, Il labirinto del fauno e La spina del diavolo.In ogni caso si parla sempre e comunque di un cinema fanciullesco non scindibile dall’obbligo di un entusiasmo nerd che trasformi in necessità vitale l’oggetto della propria passione, a prescindere che esso riesca o meno a raggiungere infine il buio delle sale.

La dimensione storico-politica, in Pacific Rim,è relegata esclusivamente a un prologo iniziale cui spetta il compito di rendere familiare il contesto in cui il film si andrà ad inserire: il pericolo divenuto strumento di propaganda, i piloti ranger degli Jaeger elevati al rango di rockstar prima che tutto cambi e le nubi si addensino sul futuro dell’umanità. Raleigh Becket ha perso il fratello dopo l’ultima delle “strette di mano neurali” e a distanza di cinque anni si prepara, ossa rotte e anima ferita, a tornare in campo. A riprendere, in buona sostanza, quelle lotte furiose tra super-ammassi di ferraglia nelle quali più di ogni altra cosa contano lo spirito di sacrificio e il senso di fratellanza che s’innesta tra due piloti che operano in coabitazione,non importa se consanguinei o meno, tanto quanto la disponibilità di ciascuno ad un salvifico travaso di ossigeno. La base comandata dal Marshall Stacker Pentecost interpretato da un ingessato e carismatico Idris Elba è un ultimo atto di resistenza contro un potere fatto solo di uniformi e sorrisi smaglianti, prossima allo smantellamento ma decisa a non mollare. Un presidio che non può esimersi dal convivere con una miriade di esperienze spiacevoli passate e ormai interiorizzate: la connessione neuronale tra i piloti, il cosiddetto “drift”, oltre a creare un link psichico investe infatti anche la dimensione dei ricordi e dunque dei rispettivi, dolorosi momenti biografici dei personaggi. Ragion per cui Pacific Rim si configura come un blockbuster traumatico sotto la dimensione ludica e bombastica, colmo dell’ossessione martellante di cancellare l’apocalisse già avvenuta in un futuro fantascientifico a noi cronologicamente vicino e di riscriverla integralmente con un finale assai più gioviale e – dunque – irreale.

Pentecost guida i suoi sottoposti come un provvidenziale spirito santo calato dal cielo, con disciplina e rigore, ma di fronte al legame anche sentimentale che si svilupperà tra i suoi due ranger migliori non potrà che fare un passo indietro. Un passaggio che è simbolo di un universo romanticizzato all’ennesima potenza, dove non mancano dialoghi ammiccanti o battute a effetto, echi marziali hongkonghesi e sorprese dopo i titoli di coda, ma nel quale quel che più conta è l’affetto analogico per una vecchia logica dei sentimenti che muove tanto le umane cose quanto, sotto sotto, anche i robot. E non importa se a dare loro vita ci sia in realtà un tripudio di CGI spinta, perché quel più conta è il cuore da giocattolaio di Del Toro, che da cultore lovecraftiano non rinuncia a degli ostili mostri deformi e sputacchianti e regala al mondo un aggiornamento in chiave umanista dell’epos martellante e fracassone che oggi domina incontrastato a Hollywood quanto si parla di scontri tra creature meccaniche. Lo spirito dei Transformers di Michael Bay non potrebbe essere più lontano in Pacific Rim, sospeso tra Neon Genesis Evangelion e il classicismo narrativo di Avatar. E il transfert mentale, manco a dirlo, non può non coincidere con la possibilità che il ricordo si materializzi fisicamente e possa pertanto essere manipolato, una soluzione ormai quasi obbligata negli spazi più cerebrali di ogni blockbuster post-Inception che si rispetti. Ecco che allora un Godzilla che distrugge una città nipponicacon una bambina spaventata e piangente a cercare riparo tra la macerie non può non riportare alla memoria l’infanzia violata de Il labirinto del fauno. Qui però è tutto meno oscuro e ombroso, si vola piuttosto sul tappetto volante dell’emozione che fugge via su un cielo di piacevoli stereotipi narrativi e psicologici mache sostanzialmente riesce ad appagare i nostri desideri infantili, com’è giusto che sia per un grosso film estivo che miri al più sano degli stupori. Un film in apparenza nostalgico ma in realtà fuori dal tempo, quindi già potenzialmente classico.

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