127 ORE di Danny Boyle

REGIA: Danny Boyle
CAST: James Franco
SCENEGGIATURA: Simon Beaufoy, Danny Boyle
ANNO: 2010

ARRIVEDERCI AMORE CIAO

L’errore più grande che si potrebbe commettere avrebbe a che fare con il cadere in tentazione, utilizzando così Buried Into the Wild come allettanti similitudini di partenza per accedere alle profondità di 127 Ore. L’ultima fatica di Danny Boyle rappresenta decisamente altro rispetto alla reclusione monoprospettica messa in scena da Rodrigo Cortes o alla ribelle vigliaccheria trapelata dall’ottimo Sean Penn127 Ore è semplicemente il film più completo, maturo e consapevole mai diretto da Boyle, suggestivo epigono strutturale del pluripremiato The Millionaire, precedente pesante da tenere ben a mente, qualora s’intendesse realmente comprendere fin dove è in grado di spingersi oggi il cinema dell’autore britannico. Quella che dai più è stata accolta come la pellicola meno personale del cineasta, ritorna nelle vesti di preziosa chiave di violino interpretativa: quasi 127 Ore ne fosse, in buona parte, protesi architettonica o successore parziale e inconsapevole. James Franco sopravvive alla trappola del Blue John Canyon nell’identico modo in cui Jamal riuscì ad emergere dalla bidonville di Bombay: trasformando la necessità in virtù, cioè estrapolando il meglio dai pochi mezzi e le uniche potenzialità individuali a sua disposizione; con l’educazione alla memoria di strada a cedere il passo a ciò che resta dell’equipaggiamento da trekking. Altrettanto invariato lo scheletro registico ed emotivo finalizzato a troncare in due il film, con il forsennato movimento iniziale dell’escursionista indomito contrapposto alla crescente tensione figlia d’una posizione immobile, dove l’attesa relativa ai perché e ai percome delle risposte alle fatidiche dodici domande passa la mano in favore del momento in cui il braccio verrà reciso; dolore, sofferenza, dita a proteggere gli occhi dalla barbarie visiva, ma il punto non è questo. Da una situazione di frenesia di partenza, ci si concentra nuovamente su un’attanagliante suspense statica: da una parte la sedia che scotta, dall’altra la trappola rocciosa. E’ cresciuto Danny Boyle, eccome se è cresciuto, tanto da replicare al fenomeno indiano con un’operazione senza dubbio spiazzante e per certi versi definitiva, ai destini della quale vengono affidati percepibili rimandi ad un intero percorso autoriale. Lo show televisivo culminato nella celebrazione format di The Millionaire (vera e propria ossessione del cineasta fin dall’esordioPiccoli omicidi tra amici), ritorna nell’allucinata immaginazione di Franco che, spossato dal suo stato di prigionia, fantastica parenti, amici e amori andati sommerso dai fittizi applausi e schermi divisi; ma 127 Ore è, soprattutto, l’ennesimo racconto di un amaro addio alla ribellione, orgoglioso status natale riconducibile alla maggior parte dei personaggi messi in scena da Boyle, spesso e volentieri costretti dal capovolgersi circostanziale degli eventi ad abbandonare i loro rivoluzionari ideali in favore di un mesto reingresso nel sistema, inesorabilmente sconfitti da ciò che a lungo avevano, poveri illusi, combattuto. In quest’ottica deve essere interpretata l’ennesima parabola dal capo chino, che accomoda James Franco sullo stesso piedistallo arreso che accolse Leonardo Di Caprio in The Beach Ewan McGregor in Trainspotting. Dalla corsa disperata e iniziale verso un paradiso (l’isola), un viaggio stupefacente (l’eroina) o un rifugio naturale lontano dal caos riconducibile alla vita di tutti i giorni (il canyon contrapposto alla folla che si sovrappone tra gli inserti d’apertura), ci si arrende all’inevitabile realtà dei fatti: l’utopia, salvo rari e favolistici casi (Una vita esagerataMillions The Millionaire), è irrealizzabile, e l’alternativa, per quanto golosa e a portata di mano sia, finisce per fare inevitabilmente rima con distopia. Alan Ralston è “soltanto” l’erede di Mark Renton, un Alexander Supertramp convertito e redento, il quale, anziché intraprendere la strada suicida e solitaria del suo presunto modello, torna sui passi del fratello maggiore “scegliendo la vita”. 127 Ore suona i ritmi del compositore A.R. Rachman (guarda un po’ lo stesso di The Millionaire), ma quando la chiosa finale sovrappone il Ralston reale al suo riflesso specchiato nel grande schermo, l’immagine che arriva è quella della monade ad un passo dal diventare uno tra i tanti, un ex antieroe solitario e romantico intento a decifrare, tra le righe, un vecchio brano degli Afterhours, lo stesso che s’interrogava sul pensiero di «spiego ai miei sogni il concetto d’onestà, loro che si son trasformati in una professione adatta» in Le verità che ricordavo. Ecco cosa comporta la mutilante esperienza di Alan Ralston, un eversivo rieducato alla società, costretto a tramutare la sua primitiva fonte di ribellione in semplice sport da fine settimana, con tanto di biglietto lasciato ai familiari per evitare che l’imprevisto si ripeta. Fine dell’avventura. Morte di uno stile di vita:

«Allora perché  l’ho fatto? Potrei dare un milione di risposte, tutte false. La verità è che sono cattivo, ma questo cambierà. Io cambierò. È l’ultima volta che faccio cose come questa. Metto la testa a posto. Vado avanti. Rigo dritto. Scelgo la vita. Già adesso non vedo l’ora. Diventerò esattamente come voi. Il lavoro, la famiglia, il maxi televisore del cazzo, la lavatrice, la macchina, il cd e l’apriscatole elettrico. Buona salute, colesterolo basso, polizza vita, mutuo, prima casa, moda casual, valigie, salotto di tre pezzi, fai da te, telequiz, schifezze nella pancia, figli, a spasso nel parco, orario d’ufficio, bravo a golf, l’auto lavata, tanti maglioni, Natale in famiglia, pensione privata, esenzione fiscale, tirando avanti, lontano dai guai, in attesa del giorno in cui morirai».

La storia si ripete inesorabile. Il sistema vince, il ribelle perde e, sottomesso, si adegua. 

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