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Io li conoscevo bene: IL CAPITALE UMANO di Paolo Virzì

il capitale umano (1)

REGIA: Paolo Virzì
SCENEGGIATURA: Paolo Virzì, Francesco Bruni, Francesco Piccolo, dal romanzo di Stephen Amidon
CAST: Fabrizio Bentivoglio, Fabrizio Gifuni, Valeria Bruni Tedeschi, Valeria Golino, Luigi Lo Cascio, Bebo Storti, Matilde Gioli
NAZIONALITÀ: Italia
ANNO: 2014

E’uno dei film italiani del nostro tempo, Il capitale umano di Paolo Virzì. Il film che tra venti o trent’anni guarderemo per capire come eravamo o come forse saremo ancora. Il pugno nello stomaco, l’attacco urgente e morale alle pancia di una nazione e agli artefici della sua rovina. Condotto in punta di piedi, ma con la gelida implacabilità di un leone ferito a morte che prova a sferrare all’avversario l’ultima zampata prima di soccombere. Perché Il capitale umano, per forza di cose e al di là della sua stessa volontà, è un film morente. Che parla delle spoglie di un paese e della sua ottusità ombelicale, di un popolo le cui speranze di miglioramento sono state spazzate via dalle scosse telluriche di un’irresponsabilità che ha terremotato istituzioni, abbattuto l’integrità etica del palazzo e dei cortili mal pensanti che gli gravitano attorno. Che si è diffusa per le strade come un morbo, corrodendo menti e generando mostri. Un’ecatombeall’insegna della distorsione antropologica, del mutamento in chiave esclusivamente peggiorativa. 

Il capitale umano parla di tutto questo, ma senza il didascalismo appiccicaticcio e preordinato della denuncia populista. Senza puntare il dito in modo esplicito, eludendo più che in parte il provincialismo nel quale anche il nostro cinema animato dalle migliori intenzioni si è lasciato impantanare nell’ultimo ventennio (perché quando un immaginario è sofferente, langue ogni suo componente, senza distinzione che tenga tra organi centrali e periferie). No, la propria requisitoria il film di Virzì, sceneggiato con i fidi Francesco Bruni e Francesco Piccolo, la porta avanti affidandosi eminentemente al cinema e alla forza espressiva della ricostruzione degli eventi e dell’adattamento del romanzo di Stephen Amidon. Dal Connecticut del testo originale a una Brianza immaginaria, il punto di riferimento massimo resta la glacialità impeccabile di una messa in scena che funziona come un congegno a orologeria: un meccanismo narrativo diviso in tre capitoli con epilogo annesso al quale si delega la funzione di prendere per mano lo spettatore e condurlo tra i resti della catastrofe, afferrandolo per la pancia e facendogli avvertire nelle viscere il senso bruciante della sconfitta, il magone della tragedia, l’ineluttabilità dello scoramento. Un incidente mortale ha coinvolto un povero cameriere in bici e due famiglie, i ricchissimiBernaschi e i borghesi Ossola, verranno toccate da vicino da quell’accadimento in apparenza così lontano: è questa basilare dinamica da thriller corale che Il capitale umano fa propria per immergersi, di sviluppo in sviluppo, nel cuore di un dramma che possa essere rivelatore, nei cocci di un microuniverso sfasciato in cui gli scrupoli albergano col contagocce e l’utilitarismo è sovrano.

All’ottima tenuta e riuscita estetica del film contribuisce non poco la splendida fotografia dei francesci Jerome Alméras e Simon Beuflis, una cornice visiva insolita per le corde solitamente pastello e agrodolci di Virzì, ma qui perfettamente raccordata sul tono e sui modi dell’opera. La polemica tristanzuola, al limite della parodia involontaria, che ha colpito il film a seguito di alcune dichiarazioni del regista è ancora una volta scoraggiante, se si pensa all’uso che tanto cinema non italiano ha fatto dei paesaggi per raccontare la grettezza e l’incapacità di discernimento umano e sentimentale di uomini meschini e piccoli piccoli. Il riferimento più vicino, per altro direttamente rivendicato da Virzì, è Fargo dei fratelli Coen, ma senza l’ironia paradossale e l’affilato, commiserante brio grottesco dei registi di Minneapolis. Il capitale umano non ha questo baluardo di salvezza, è un film senza sbocchi, privo di vie di fuga, in cui tutte le uscite di sicurezza sono state sbarrate perché il rischio concreto che il tuo vicino sia pronto a mandarti al macero è costantemente dietro l’angolo e non c’è proprio motivo per dormire sonni tranquilli.

“Abbiamo vinto, ci sei anche tu”, dice il mellifluo Giovanni Bernaschi di Fabrizio Gifuni alla consorte Carla, una Valeria Bruni Tedeschi svampita e tramortita dall’inadeguatezza, dal peso abortito di un sogno sfumato: la carriera artistica e teatrale, quell’aspirazione non realizzata e non compresa dal marito. In un’Italia che dismette i teatri per impiantare al loro posto degli immobili qualsiasi e le insegne volgono al nero (metafora tanto illustrativa quanto efficace) si vince e si è corresponsabili anche se non si fa nulla, anche si è solo tacitamente partecipi. Perché in fondo colpevoli lo siamo tutti, nessun escluso. Nel riversarci addosso questa miserabile verità il film di Virzì letteralmente ci intuba nella sua morsa angosciante, senza fornirci chissà quale ossigeno per sopravvivere, in un raggelato ingranaggio perfetto che opprime chi guarda attraverso una sapiente apnea di corpi, di facce, di ambienti. Un orizzonte negato, asfittico e doloroso, irritante anche nella stereotipia: attorno al tavolo imbastito da Carla per parlare dei suoi progetti teatrali ci sono tutti i vizi e i vezzi della nostra industria culturale, le sue frustrazioni e i suoi tic:il giovane professore, intellettuale dall’aria arruffata e stropicciata, il leghista insulsamente attaccato al territorio e convinto sostenitore del bisogno della gente di divertirsi, la critica della Prealpina dalla vocazione sperimentale che stronca tutto per partito preso perché “il teatro è morto” e via discorrendo. E allora? Non sappiamo forse già tutto? In realtà, sono (solo?) figurine. Esili, come il nostro tempo malato e disperato. Un tempo che, come il film di Virzì, ti inghiotte ma non ti risputa con tanta facilità, facendoti viaggiare insieme ad esso nel tritacarne dei sogni infranti. L’unico filo di speranza lo si intravede negli occhi grandi e adombrati da un velo di tristezzadi Serena Ossola (la brava esordiente Matilde Gioli), che saprà ancora innamorarsi del diverso, del reietto, del freak di turno, mentre intorno a lei le rovine si consumano e si sfaldano. Per una volta (forse la sola di tutto il film), vediamo un moto che va nel senso opposto,contro ogni utilitarismo e convenienza personale. L’unica nota “stonata” di verità in un’agghiacciante sarabanda di ipocrisia, scolpita come meglio non si potrebbe nel ghigno ridicolo del Dino Ossola di Bentivoglio: il prototipo del Frankenstein italiota, penoso sempre e comunque, anche quand’è persuaso di essere spregiudicato.

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