Fine pena mai: COMING HOME di Zhang Yimou
REGIA: Zhang Yimou
SCENEGGIATURA: Jingzhi Zou
CAST: Gong Li, Daoming Chen, Huiwen Zhang, Ni Yan, Jia-yi Zhang, Chun Li
NAZIONALITÀ: Cina
ANNO: 2014
«In the summer rain alone I cried
I couldn’t stand to think heaven was a lie
I never stop losing you».
Melò sommesso e composto, polveroso e triste; è Coming Home, la nuova attesissima (almeno qui a bottega) pellicola di Zhang Yimou che, in teoria, aveva tutte le carte in regola del capolavoro: una protagonista irrinunciabile (la Gong Li che ha fatto splendere in quasi tutti i suoi film, da Lanterne rosse a Vivere, e qui in vesti dimesse e quotidiane), una storia d’amore possibile/impossibile/possibile/e di nuovo impossibile; e poi la guerra, la morte, la Storia, le ferite del passato e del presente, quelle della famiglia e quelle della società.
Ovviamente, stavolta, i voli stereoscopici e i colori infiammati di lirismo frastornante di La foresta dei pugnali volanti, La città proibita e molti altri, vengono debitamente soppressi e offuscati da una cappa storico-politica di oppressione e povertà che impedisce ai sentimenti di deflagrare e impone un rigore silente e una fermezza pudica alla mdp.
Fin qui, tutto bene, tutto giusto: peccato che la trama – emozionante come un terremoto nel suo esporsi ed esprimersi minimal e in punta di piedi all’inizio –si impantani nel mezzo in una ripetitività frustrante per noi e per i personaggi, un continuo fallire che alla lunga pesa e prostra più del dovuto, facendo sentire come faticosa una durata di 109 minuti, in un qualsiasi altro caso assolutamente nella norma. Quasi che, fosse stato un mediometraggio, avremmo potuto apprezzarlo di più: e scriverlo fa male, dato che noi, di alcuni anzi di tanti Yimou, non eravamo mai sazi.
Tant’è: comunque, a rincuorarci c’è la certezza che, senza quella parte centrale protratta e rivolta su se stessa ancora e ancora e ancora, gli ultimi minuti non sarebbero stati così incisivi, così devastanti. Perché il regista torna a volare altissimo e dolorosissimo in uno dei finali più belli ed eloquenti della sua intera filmografia. Quel finale in cui *spoiler alert* le figure ormai senili e consumate di Yu e Lu, costrette in enormi giacconi, fiaccate da una neve senza pietà, in mano un cartello sgualcito e rassegnato, rimangono immobili e fragili come statue di gesso senza pace ad osservare il niente, ad attendere il vuoto, in una agghiacciante ripetizione di un’attesa che non avrà mai compimento, un desiderio che si ripete e si infrange ogni volta, lo straziante attendere il ritorno di un amore, di anni rubati, di una gioia che gli è stata strappata, dell’identità di un paese e di una storia che non può più appartenergli, ma di cui non smetteranno mai d’aver bisogno.