Homo Zombiens: A PIGEON SAT ON A BRANCH REFLECTING ON EXISTENCE di Roy Andersson
REGIA: Roy Andersson
SCENEGGIATURA: Roy Andersson
CAST: Nisse Vestblom, Holger Andersson
NAZIONALITÀ: Svezia
ANNO: 2014
Tre incontri con la morte. Dopo un incipit fulmineo e fulminante che, sebbene apparentemente vacuo, mette già in scena quelle che saranno le forze dialettiche in campo – la curiosità apatica dell’essere umano verso ciò che lo circonda, e la gelida indifferenza verso chi lo circonda – A pigeon sat on a branch reflecting on existence prende il via mettendo letteralmente in scen(ett)a un terzetto di episodi di morte caratterizzati, appunto, da una maggiore concentrazione dinamica e scenica sul cosa (la bottiglia da stappare e le mansioni da svolgere in cucina; la borsa con i gioielli e il letto d’ospedale; la consumazione già pagata e le decisioni da prendere) piuttosto che sul chi (i deceduti, inesorabilmente trapassati e di conseguenza inesorabilmente ignorati). Le tre gag, inoltre, si dispiegano già come successione ordinata, e non solo come accatastamento di situazioni, laddove la profondità di campo tende progressivamente a sparire portandosi dietro la profondità del senso di morte: nel primo episodio vediamo morire un uomo che all’inizio della scena sta almeno apparentemente bene, pertanto la modalità della sua dipartita ci coglie di sorpresa; nel secondo vediamo un’anziana donna già sul letto di morte, e dunque sappiamo già che sta per esalare l’ultimo respiro (che neanche viene mostrato); la vittima del terzo è addirittura già morta. Ad incombere è sempre meno il momento – e il modo – del decesso, e sempre più l’indifferenza che lo accompagna, e lo humour plumbeo che da questa scaturisce. Tutti gli attori del film sono (bianchi come) cadaveri, già morti o almeno condannati, ma ci facciamo sempre meno caso poiché la percezione di quanto accade è sempre più mediata dai ritmi artici della narrazione e dell’osservazione glaciale – come di un piccione che rifletta sull’esistenza, appunto – sull’(essere un) essere umano. Ritmi scanditi dalle ripetizioni, dalle deviazioni, dalle uscite di campo, di scena e di storia, dai ritorni di personaggi e situazioni che viaggiano aleatoriamente nello spazio e nel tempo manifestandosi al tempo stesso come testimoni e come unico segno logico dell’incedere insensato e immobile dell’uomo nella storia.
Si ride, guardando il film del maestro svedese Roy Andersson, ma si ride via via sempre meno e sempre più amaramente, sull’onda di una comicità che sfrutta tutto il potenziale dell’istinto all’autodevastazione dell’uomo moderno, fino a ritrovarsi nell’imbarazzo totale del non riuscire a trattenere almeno l’impulso di una risata di fronte ad alcune delle peggiori atrocità che l’uomo possa aver mai pensato di commettere.
Una comicità che prosciuga immediatamente la profondità di campo per svilupparsi sulla profondità di tempo, ossia sull’efficacia dell’effetto comico stesso. Svilupparsi al punto da esaurire, e mutare inevitabilmente, di pari passo con l’evoluzione della specie in Homo sapiens, in tragedia.
Così le gag dei due “protagonisti”, che vogliono assolutamente far divertire la gente con i loro grandi classici, perdono ogni volta più senso comico, fino a che non vengono sostituite, in maniera del tutto spontanea e naturale, dalla rivelazione del loro dramma personale di individui solitari ed abbandonati. E così il musical corale sulla locandiera zoppa nella Goteborg degli anni Quaranta lascia il posto a improbabili ma logici crossover spaziotemporali in cui Carlo XII annuncia in un pub dei giorni nostri la messa in marcia del suo esercito, e al ritorno dalla disfatta di Poltava si ferma nello stesso locale per un’acqua minerale, per cercare di tornare ad una serena normalità proprio come i cacciatori delusi del dipinto di Pieter Bruegel (The Hunters in the Snow) che ha ispirato ad Andersson il titolo del film.