Showtime: HUNGER GAMES – IL CANTO DELLA RIVOLTA PARTE 1 di Francis Lawrence
REGIA: Francis Lawrence
SCENEGGIATURA: Danny Strong, Peter Craig
CAST: Jennifer Lawrence, Woody Harrelson, Julianne Moore, Philip Seymour Hoffman
USA 2014
E tre. Il capitolo finale di una delle saghe più intelligenti e riuscite degli ultimi anni volge al termine. A Hollywood il ferro va battuto finché è caldo. Prima Harry Potter, poi Twilight, persino Peter Jackson ha ceduto alla trilogia anche per Lo Hobbit. Presto detto. Hunger Games Il canto della rivolta (Mockingjay, in lingua originale) esce diviso in due parti. Un anno ancora e i giochi saranno fatti. Non c’è più tempo per perdersi in impossibili test di sopravvivenza. Niente gironi e livelli, stavolta si fa sul serio. Fuoco alle polveri!
Prima però di vedere distrutta l’odiata Capitol City e il Presidente Snow si dovrà assistere a questa ouverture per lo scontro conclusivo. Sullo schermo tornano eroi, antieroi ma anche volti nuovi (su tutti la sempre brava Julianne Moore nei panni della leader dei ribelli e, direttamente dalla serie Il trono di spade, Natalie Dormer). Lo scenario di morte e distruzione echeggia memorie di aspri conflitti ancora in corso in varie zone del globo. Basti pensare alle prime sequenze con i prigionieri in ginocchio sottoposti a esecuzioni che rimandano alla crudele attualità. Realismo e finzione in questo episodio si incrociano continuamente quasi a essere l’uno lo specchio dell’altro. Qui la guerra si vince a colpi di propaganda e la rivolta si riflette in immagini e suoni. La silhouette della Ghiandaia Imitatrice si staglia fiera all’orizzonte mentre i dittatori tengono in ostaggio e avvelenano la mente dell’amico Peeta.
Francis Lawrence dietro la macchina da presa confeziona un lungometraggio in cui dominano i silenzi, i ritmi compassati, i pensieri inquieti di un gruppo di giovani adulti. Cala l’oscurità su Panem e le tinte cromatiche sono sempre più cupe e tetre dettate da una predominanza del grigio e del verdone. Il bianco simboleggia l’essenza del male sulle divise delle sentinelle del regime e nel potentissimo frangente del bombardamento di rose. Il meta cinema regna lungo tutto l’arco narrativo dell’opera incompiuta. L’inganno a scopo di bene e l’effetto di una curata messa in scena diventano necessari per battaglie condotte e portate a termine a suon di campagne pubblicitarie. Katniss Everdeen non ha più bisogno di indossare abiti fiammanti per andare in onda. Bastano un discorso ben scritto e un green screen a creare atmosfera. Per risvegliare le coscienze al punto di gettarle in mezzo al fango e al dolore bisogna essere convincenti. Apparire e soltanto dopo essere.
L’ex ragazza di fuoco agghindata di tutto punto per andare di nuovo davanti alle telecamere (questa volte gestite da una variopinta corte di miracoli hi-tech al soldo dei militari) deve mettere da parte paure e ansie. Quella lacrima sul viso deve lasciarla scorrere dando le spalle a chi, in lei, vede un simbolo e un punto di riferimento per il riscatto. Sempre seguita da una troupe cinematografica Katniss torna a incarnare uno strumento nelle mani di coloro i quali scatenano le guerre all’interno di un alveare sotterraneo, il famigerato Distretto 13. Il canto del titolo italiano allude ad un brano composto dall’autrice dei romanzi Suzanne Collins con le musiche di James Newton Howard e della band The Lumineers. Le parole narrano in superficie di una storia d’amore ma il fuoco cova sotto le cenere. Le strofe intonate da Jennifer Lawrence preludono a una vendetta mentre con passo folk si alternano visioni di collane di corde e cappi intorno all’anima prigioniera. Qualcuno deve aver udito e compreso il messaggio di questa (di primo acchito) innocente canzone sentimentale. E ancora la realtà. Khon Kaen, regione di Isaan, nord-est della Thailandia. Un pugno di studenti in opposizione al regime militare e al colpo di stato del 22 maggio salutano con le tre dita alzate. L’episodio induce una della principali catene di cinema della regione a ritirare le copie dalle sale. I sovversivi vengono arrestati. Domanda: ma è davvero soltanto un film?