L’action pt.1 – Violenti o nolenti: Liam Neeson e gli altri
Una telefonata allunga la vita. O la cambia. Se non la vita, la carriera. E con essa, anche un pezzo del mondo di cui fai parte.
Liam Neeson era un uomo mite e tranquillo. Il tipo che se lo incontri per strada lo abbracci, come se fosse un pacioccoso panda di peluche; il tipo a cui chiederesti di fare da balia ai tuoi figli, per quanto era benevolo e rasserenante, come una Mary Poppins meno sexy e senza amici strambi. Era uno di noi, uno di famiglia. L’idea di menare le mani gli rimbalzava addosso. Nell’Olocausto lui salvava vite; da leader della rivoluzione irlandese, cercava il dialogo; da maestro Jedi, l’unica Forza a cui faceva ricorso era quella spirituale. Sì, vabbè, ok, nella battaglia iniziale di Gangs of New York randellava di brutto, ma lo faceva nel nome di nostro signore Gesù Cristo, capite?! Gli hanno messo una croce in mano e l’hanno vestito da prete, perché gli spettatori non avrebbero accettato di associare la sua immagine a un violento puro. Persino quando si muoveva in un contesto di violenza, lui in qualche modo la rifuggiva.
È per questo che tutti si sono tanto straniti, quando è arrivata quella telefonata, tanto da farla diventare uno dei soggetti di meme più popolari del web. Il film in questione è ovviamente Io vi troverò (Taken; 2008) di Pierre Morel, sulla cui perfezione non sto qui a dilungarmi, e non solo la carriera di Liam Neeson, ma l’intera storia recente dell’action hard-boiled occidentale, si distingue in ciò che viene prima e ciò che viene dopo la telefonata di Io vi troverò.
L’ora abbondante di film che segue quel minuto di incredibile tensione drammatica ha consegnato alle antologie il nome di un giovane straordinario regista – Pierre Morel – che con il precedente Banlieue 13 non aveva raggiunto il meritato successo, e soprattutto un personaggio tutto nuovo, il vero grande supereroe del cinema degli ultimi cinque anni: il Liam Neeson in versione spaccaculi, una specie di cyborg indistruttibile, inscalfibile nella scorza costruita addosso ad uno spirito segnato e tormentato, vendicativo, spietato, infallibile, chirurgico, mortifero.
Sei sono i film (tutti assolutamente godibili) con al centro il Liam Neeson picchiatore usciti negli ultimi cinque anni, tra cui i due sequel del fortunato Taken, e tre film diretti dallo spagnolo Jaume Collet-Serra. In Run all night, ultima appassionante fatica dell’accoppiata Collet-Serra/Neeson, il Nostro è addirittura un padre rinnegato dal figlio e finito in miseria, che si ubriaca al momento di figurare come Babbo Natale e finisce con l’imprecare davanti ai bambini e il provarci con la madre di uno di questi. Per dire quanto sono cambiate le cose dopo quella telefonata. Naturalmente si riscatterà facendo calare mazzate su tutta la mafia del Queens per difendere il figlio, tutto in una notte newyorchese come Fuori orario di Scorsese ma soprattutto come i Guerrieri di Walter Hill. Mary Poppins è diventata Paul Kersey (anzi, è diventata Daredevil, l’altro grande supereroe di questa stagione, esaltato anche lui nella violenza dura e realistica della notte della Grande Mela).
È di quest’anno anche Taken 3, scritto come i primi due capitoli da Luc Besson e Robert Mark Kamen e diretto – come il secondo – da Olivier Megaton, prodotto ispirato e godibile (più del precedente) e interessante soprattutto per come viene osservato il conflitto tra bene e male: la peculiarità del film risiede nel particolare rapporto che si instaura tra Bryan e il suo antagonista, che non è il villain ma il detective della omicidi, e dunque con Bryan condivide lo scopo, ossia scoprire la verità sull’omicidio, e perdipiù è presentato come un buono e crede da subito all’innocenza del protagonista, ma questo lo considera comunque come avversario, poiché è d’intralcio alla sua indagine, al suo modo di indagare, ossia al suo modo di essere, al suo essere pura azione violenta – seppur volta al bene – ed efficace. Per questo Stoltzer è presentato come un uomo di gesti, piccoli, innocui, inefficaci, quotidiani: afferrare il pezzo degli scacchi, giocare con l’elastico, mangiare bagel. Lo sguardo noir da macro diventa micro, si attacca ai dettagli e lascia che a descrivere e raccontare sia la moltitudine di punti di vista.
E dopo una pausa di cinque anni, è di questi mesi anche il ritorno di Pierre Morel, coinvolto nel progetto di The Gunman da uno Sean Penn pericolosamente in vena di fare l’autore impegnato e di sensibilizzare. Il soggetto sembra su misura per Michael Mann (ma buon per lui che non sia stato tirato dentro, e che abbia invece realizzato Blackhat, ennesimo fortunato capitolo del suo cinema vitale e determinato); Morel è un altro tipo di regista, e il feeling tra lui e il film non scocca praticamente mai. La presenza di Penn, interessato a trattare temi “importanti” e quindi col dramma sempre sbattuto in faccia a chi guarda, risulta addirittura più ingombrante dietro la mdp di quanto non lo sia davanti (goffi alcuni duetti con Jasmine Trinca), alla fine sembrano tutti scontenti (Javier Bardem in qualche scena appare quasi imbarazzato) e la pellicola, pur non essendo malvagia, resta pesantemente zavorrata e non decolla.
Aspetteremo con ansia il prossimo film di Morel, sperando che il protagonista, più che a salvare il mondo, pensi a salvarsi il culo. Come fa Liam Neeson, eroe dei nostri giorni.