I SEGRETI DELLA MENTE di Hideo Nakata
REGIA: Hideo Nakata
SCENEGGIATURA: Enda Walsh
CAST: Aaron Johnson, Imogen Poots, Matthew Beard, Hannah Murray
ANNO: 2011
USCITA: 2 settembre 2011
T.O: Chatroom
COME MORIRE DA AUTORE E RINASCERE COME CIARLATANO
E’ indubbiamente impossibile amare I segreti della mente (a.k.a. Chatroom) conoscendo il background di colui che ha rinnovato il genere horror, non solo giapponese, grazie a capisaldi della paura come Ringu (1998) e Dark Water (2002), in grado, una volta, di trovare lo smalto anche in opere minori come l’affascinante ma altalenante Kaidan (2007). Se prima c’erano dei dubbi sulla vecchiaia precoce di Nakata, ora non ci sono più: l’autore nipponico si è rincoglionito; stanco, spossato, svogliato e, incredibilmente, non più capace di creare un minimo di immaginario, come se avesse perso per strada il suo straordinario talento visivo.
Strano, infatti, capire cos’abbia spinto il regista giapponese ad accettare uno dei più raffazzonati e banali script che si siano mai visti, persino nel malfamato cerchio dei “teen-movies”. Che debba pagare anche lui il mutuo? Che il cinema occidentale sia molto più attraente di quello locale?
Perchè I segreti della mente è scritto male, svogliato, totalmente deritmicizzato, trovando un bagliore di luce in pochi componenti: fotografia (curata, tra i colori lisergici della realtà virtuale e quelli freddi e disperati della realtà) e colonna sonora (c’è persinoPlastikman, la scelta migliore per un film che parla di terrore e tecnologia.)
Ma, al di là di pochi pregi, forse ricercati per un eterno conflitto di odio-amore per il padre di Sadako, Chatroom è il completo fallimento, il canto del cigno della creatività visionaria di uno degli (ex?) registi giapponesi più importanti degl’ultimi anni.
I segreti della mente mette in scena la solita passerella blanda di noiosissimi teenager occidentali che non sanno cosa fare nella loro vita. Mentre alcuni di loro sembrano interessanti (il ragazzo innamorato di un’undicenne, la tizia stanca delle amichette d’alta società), altri sembrano incarnare gli stereotipi più brutti del cinema hollywoodiano (la verginella e isterica, il depresso sull’orlo del suicidio con trauma alle spalle, il sociopatico con aria da bello e dannato che istiga i più profondi impulsi omicidi dello spettatore).Hideo Nakata dirige con il solito estro pitturando ambienti fascinosi, ma non riesce a destare l’interesse di una sceneggiatura tirata via, scritta con il pilota automatico e deludentemente prevedibile, scatenando più di uno sbadiglio persino nel finale, quando le cose si vivacizzano.
Si prova a parlare di problemi mentali e manipolazione, ma si resta stupidamente in superficie, tratteggiando svogliatamente i più futili ritratti di umanità deviata: impossibile provare empatia per dei personaggi che sembrano quasi caricaturali, apatici manichini senz’anima.
Si torna all’orrore legato alla tecnologia (come in Ringu), ma non si riesce ad andare al di là dei pericoli risaputi legati al web (i pedofili, le chat erotiche, il mobbing pressante), proprio come un qualsiasi mestierante che vuole fare un film per teenager. Non poi così lontano il paragone con un babbeo come Federico Moccia, che cerca di raccontare l’erotismo adolescenziale trasformando i suoi fasullissimi giovini dai nomi ridicoli in arrapate ninfomani e bellimbusti vissuti. Il disagio che emerge qui è quanto di più finto e forzato si sia mai visto, orribilmente stereotipato e portato verso un eccesso che non sta né in cielo né in terra. Non resta nulla del malessere esistenziale che si nascondeva dietro gli occhi sgranati della protagonista di Dark Water, non c’è l’angoscia palpabile di una madre che farebbe di tutto per salvare il figlio da una maledizione, come fossimo in anestesia totale. Solo chiacchiere di nerd e aspiranti modelli di Abercrombie & Fitch con il vizietto dell’autolesionismo.
Fail clamoroso. Vedere marcire un autore così, è sempre una pugnalata dritta al cuore.