DETECTIVE DEE E IL MISTERO DELLA FIAMMA FANTASMA di Tsui Hark
Regia: Tsui Hark
Sceneggiatura: Chen Kuo-Fu, Chang Chia-Lu
Cast: Andy Lau, Carina Lau, Li Bingbing, Deng Chao, Tony Leung Ka Fai
Anno: 2010
Uscita: 26 agosto 2011
T.O: Di Renjie
POTERE ALLA FANTASIA, FANTASIA E POTERE
La magia del cinema di Tsui Hark è sempre stata quella che, in un certo senso calviniano (leggi le Lezioni Americane), si può definire la leggerezza, e cioè la capacità di comporre l’opera senza farne trasparire le difficoltà intrinseche, quella che è la struttura, l’architettura della storia raccontata. E’ anche per questo che i suoi film migliori, pur presentando una stratificazione tematica e una complessità, anche politica, importanti, risultano omogenei e fluidi.
Questo non lo si riesce a fare senza la padronanza del mezzo tecnico cinematografico cui Tsui ci ha abituato durante i 30 anni della sua carriera di uomo di cinema a tutto tondo. La delusione di molti ammiratori del suo lavoro, di fronte ad alcuni dei suoi film, soprattutto a quelli realizzati nell’ultimo decennio, è sorta in passato proprio dal fatto che questi film apparissero meno riusciti in quanto in un certo senso farraginosi, e financo troppo trasparenti nella loro struttura. I fili che il grande burattinaio Tsui tira sui suoi personaggi e le vicende che li vedono protagonisti allora appaiono scoperti, superficiali, e a risentirne è appunto la profondità e ricchezza tematica che ci aspettavamo, che bramavamo preferendo vedere un suo film piuttosto che quello di qualcun altro.
In Detective Dee e il Mistero della Fiamma Fantasma, Tsui sembra ritornato a macinare idee, a riaprire la fabbrica dei sogni che per tanto tempo è stata la sua mente, a regalare ai nostri occhi e alle nostre menti un cibo nutriente di fantasia e realtà politica.
Con Detective Dee torniamo ad essere davanti a un film in cui Tsui vuole per forza essere il primo, l’innovatore, tensioni che in passato avevano portato i suoi film a mostrare più di un lato debole dal punto di vista della compattezza d’intenti (si pensi ad esempio a Seven Swords, o a Missing) e questo va a favore della coerenza interna ed esterna della storia, oltre che della sua fruibilità a più livelli che il successo di critica e di pubblico, a partire dalla Mostra del Cinema di Venezia dove era in concorso lo scorso anno e arrivando ai buonissimi incassi realizzati dal film in Cina e a Hong Kong.
Molti hanno messo nel paniere critico, sotto la voce delle positività, l’affascinante lato visionario del film (la discesa nella città nera, il combattimento coi cervi), ma da queste parti l’impressione più grossa l’ha lasciata il fatto che, nello sviluppo principale della trama, nell’indagine di Di Renjie, protagonista della storia, quel che predomina è tutt’altro che il lato fantastico, quanto piuttosto la negazione del fantastico. La trama principale è infatti una storia fortemente politica, quella dell’ascesa al potere della prima ed unica imperatrice donna della storia delle dinastie cinesi, e in essa non c’è spazio per i trucchetti e le magie (che vengono relegate ai margini), ma solo per l’astuzia di un uomo, il suo (non) mattatore e protagonista. E’ qui che Tsui arriva a ribaltare decenni di cinema fantastico di fantasmi e maghi che hanno animato la cinematografia di Hong Kong, per ritornare a una visione logico-razionale che già aveva ispirato il suo film di debutto The Buttrefly Murders, fornendo in tal modo una nuova versione del genere, con buona pace delle pulsioni nostalgiche di certo cinema cinese odierno orientato a un revival del fantastico probabilmente fuori tempo massimo (si pensi a Painted Skin di Gordon Chan).
La donna-imperatrice, il gender bending del priore, i personaggi in gabbie sempre più grosse (Di Renjie esce di prigione solo per entrare in una prigione più grande, il mondo, proprio come Tsui Hark esce dalla gabbia del cinema di Hong Kong in crisi di post handover e finisce a coprodurre in una gabbia più grande e più abbondante di mezzi, ma nella quale ci sono più paletti da seguire, quella della Cina popolare), la prospettiva storico-politica che è al centro delle esistenze dei personaggi, ma che alla fine va avanti solo quando ci si arrende al destino storico più grande, non cercando di ostacolarlo, ma semplicemente limitandosi a pilotarlo con il proprio corpo (come fa Di Renjie alla fine del film, e come succedeva ad esempio ai personaggi di Peking Opera Blues): Tsui rimane sempre Tsui, anche se si adegua ai vincoli produttivi cinesi (la stessa assenza di spiegazione fantastica della storia è apparentemente uno di questi vincoli).
In questo senso, Detective Dee è come una sfida di Tsui al cinema cinese, che ha lo scopo di dimostrare che lui, (ex?) maestro, è in grado ancora di fare film che sanno stare nella loro gabbia e continuare a gridare comunque con la loro voce (cosa che i precedenti All About Women e Missing, nel loro dichiarato disimpegno quasi annoiato, non avevano dalla loro), in attesa di essere liberati.
Certo, il film ha pure dei difetti (soprattutto dal punto di vista narrativo, un punto di vista sul quale punta molto e appunto per questo rende certe piccole lacune apparentemente più grandi) e non è l’ennesimo capolavoro nella carriera di uno che di capolavori ne ha girati un buon numero, ma un altro punto cruciale e importante del suo cinema. Cosa ci riservi il futuro non è dato leggere in queste righe, ma se la voglia di cinema che brilla nei fotogrammi dello Tsui di Detective Dee è ancora là, di sicuro si può sperare per il meglio, per un ritorno della fantasia al potere, anche nel cinema.
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