SHOPLIFTERS di Hirokazu Kore’eda: Un incurabile umanista
REGIA: Hirokazu Kore’eda
SCENEGGIATURA: Hirokazu Kore’eda
CAST: Lily Franky, Kirin Kiki, Sosuke Ikematsu, Sakura Ando, Mayu Matsuoka, Miyu Sasaki, Jyko Kairi
ANNO: 2018
PRODUZIONE: Giappone
È raro uno sguardo come quello di Kore’eda. A discapito delle voci degli integerrimi, ché “vince Cannes con il suo film più canonico”, lo standard koreediano è più ora più Kore’eda di Kore’eda in una maniera (anti-manieristica) francamente ammutolente. La personalità netta del regista vivifica un film che marchia a fuoco un’intelligenza, un’umanità prima che artistica (chi sostiene che non debbano andare di pari passo, ama i registi sbagliati) di grado assoluto. Kore’eda abbraccia tutto il mondano con un atteggiamento panista che lo eleva dal mero e sempre più infelice estetismo. Il mezzo in “Shoplifters”, così come in tutti i film di Kore’eda, letteralmente scompare, in una cattura del reale (e conseguente fluidità di fruizione) che pare in pieno svolgimento live senza alcuna mediazione (quello che prova a fare la camera a mano dei pedinatori della povertà) né interferenza, con una naturalità di risultati che probabilmente coincide con la più alta difficoltà d’intenti. Il fatto è che Hirokazu, con altrettanta probabilità, ci riesce dormendo anche la notte. Lo si immagina dirigere (e montare) ondeggiando il capo a tempo di Sting come nella cerimonia conclusiva della rassegna cannense, ovvero con uno spirito pacato e pacificatore come pochi, mai di fretta e in equilibrio circense come il tempo dei suoi film. In “Shoplifters” è vero, sì, ci sono tutti gli elementi più distintivi del suo cinema, che ad elencarli par ora quasi accademico, ed è altrettanto vero che quando prova a cingerli più da lontano come nel precedente “The Third Murder” lo slittamento sul ghiaccio gli permette di volare ancora più in alto, ma è disonesto rimanere impassibili di fronte alla limpidezza di questo suo ultimo lavoro in un’ottica massacrante come quella della politique. Si potrebbero citare un centinaio di cineasti che, stesse tematiche alla mano, appaiono tristemente incapaci di parlare (ma vogliono a tutti i costi) di disfunzionalità, di outsiders, di movimenti del cuore, e lo fanno pensando di dover specificare la statura morale dei loro personaggi, la loro più o meno declamata bontà; anzi, sotterrando tutto sotto la coltre ombrosa e polverosa di una mastodontica impostazione morale che finisce per distruggere quella etica (Alice Rohrwacher, in ascolto?), in quella che appare soltanto una grande, grossa operazione pornografica di chi si mette in alto e non ad altezza di sguardo. Ancora, il suo non è un mondo amorale, distillato in un’astrazione sociale: con la morale Kore’eda fa sempre i conti, non la elude mai dai giochi, ma non la dà per scontata, né univoca o incombente, come a dire che sa perfettamente come essa sia soltanto frutto di un costume momentaneo, come un termometro corporeo che segna sempre una temperatura diversa. La forza di Kore’eda e di altri (pochi) registi come lui è che l’interlocuzione non è osservazione né compartecipazione spicciola, i suoi personaggi gli siedono a fianco, gli stringono la mano, insieme respirano, inquadrati frontalmente soltanto quando devono rispondere a una legge più grande di loro, quasi di nascosto, in apnea, quando mangiano, quando fanno il bagno, o l’amore. Persino i gesti più smaccatamente retorici, gli snodi melò del genere, giungono come una pugnalata leggerissima, tanto dolce, in purezza, da dover essere calcolata finemente o spillata da una mente creativa a cui viene facile, facilissimo. La tensione tra i due luoghi della progettualità cinematografica è palpabile, ma non si riesce a capire da che parte sbilanciarsi. Rimane che l’incantesimo a cui ci sottopone è tra i più fini del contemporaneo: si può, si deve, immaginare un mondo in cui i suoi film sono scuola, storia, sul Cinema e sulla vita. Viene da pensare che Hirokazu sia un uomo libero, più libero di molti.