Venezia 2017: First Reformed di Paul Schrader (in concorso)
Formato 4:3. Una chiesa. Un grigio apocalittico.
Schrader abbandona i tentativi allucinati del precedente Dog eat dog per offrirci una delle sue opere più dure e spietate, tra le recenti; stilisticamente opposta. Potremmo chiamarlo “Il suo Silence” e, premettendo che Scorsese sia un romantico mentre Schrader un rabbioso distruttore, il gioco sarebbe fatto. Cinema-cecchino-terrosita, acuto ed incazzato, First reformed non lascia margine, inghiotte, seduce, colpisce, annienta, dilania. Schrader si riconferma padrone più dell’austerità che del gigioneggiare registico, meticoloso quanto scabro, assolutista e fatalista quanto innamorato di certe gradazioni di disperazione. La fede (come sempre), la chiesa, l’oppressione, la reazione incontrollata, l’aut-aut esistenziale che diventa pura narrazione asciutta.
I personaggi del film vivono ed insieme muoiono; l’ambientazione è quella provincia più rattrappita ed arida – il tutto incastrato in un frame, una lama, una contrizione unica, mortale, vitale. Come con un rasoio in mano, Schrader riesce a racchiudere, senza mai una distrazione o una divagazione, intere esistenze (dalal prospettiva della loro idea di terminazione) sul filo di questo: non un gioco di torbide tribolazioni, ma la marcia inesorabile verso l’atto (gli atti) terminali che guardano alla vita con distacco quanto con serietà inappuntabile.
Microscopico cosmo uggioso, pronto ad essere reciso dal gesto: in First reformed è puro dilaniarsi costante e certo, con un regista/sceneggiatore deus ex machina ed insieme ricco di pietà. Nell’incessante malessere, la salvezza può irrompere, come la macchina da presa rompe la sua immobilità.