Cannes 2018: En guerre di Stéphane Brizé
REGIA: Stéphane Brizé
SCENEGGIATURA: Olivier Gorce, Stéphane Brizé
CAST: Vincent Lindon, Mélanie Rover, Jacques Borderie
ANNO: 2018
PRODUZIONE: Francia
Dopo l’exploit veneziano di Une Vie, Stéphane Brizé torna sulla croisette con un’opera più vicina alle precedenti. La parentesi letteraria può dirsi chiusa, per riportarci al più crudo presente, alla sempiterna parabola sociale, tra precariato e lotta di classe.
Se col precedente La legge del mercato (2015) il regista aveva dato prova magistrale e sapiente nel trasporre in modo personale una delle tematiche chiave del cinema francese (e più in generale europeo) contemporaneo, con questo En guerre si ritrova (se volontariamente o suo malgrado) a dover piallare il discorso e la messa in scena tutta in nome di una coralità per i più difficile da gestire.
Già dal titolo possiamo trovare un’asticella alzata di molto: si mira a un omnicomprensivo atto narrativo che possa racchiudere in toto le molteplici sfaccettature e i drammi della lotta operaia. Per far ciò, Brizé abbandona una determinata intimità (quella che trasudava da ogni singolo frame di Une vie, quella sempre alle spalle di Vincent Lindon in La legge del mercato), per dare spazio a molte, troppe voci, all’interno di una vicenda che tutti, purtroppo, in un modo o nell’altro conosciamo.
Ed è purtroppo questo “che tutti conosciamo”, unito alla voglia/necessità di assurgere a compendio esauriente a rendere più che palpabili le principali lacune della pellicola. Se da un lato Brizé non riesce a dimostrare di saper gestire a pieno e in modo convincente fiumi verbosi (un nome per tutti: Laurent Cantet), dall’altro una certa semplicità/semplificazione assolutamente volontaria (perché appartenente già ad episodi precedenti della sua filmografia) cade di fronte all’esilità dei dialoghi e della vicenda tutta. Esilità ovviamente in senso lato, perché comunque ciò che ci viene dato riesce comunque a farsi riconoscere tra titoli in tutto e per tutto similari, ma a questi fin troppo facilmente riconducibile per modalità e mood. Si potrebbe dire che con En guerre Brizé si sia dato al cinema di genere, a un genere specifico (automaticamente alto quanto vi pare ma pur sempre un genere) senza dare quei colpi di leva, quei tocchi particolareggianti in grado di elevarlo.
C’è il tipico eccesso di carne al fuoco, in questo susseguirsi di riunioni sindacali, lotte intestine, inserti televisivi e momenti privati; in un cinema ormai fin troppo automaticamente “di denuncia”, fermo nelle sue prospettive cronachistiche e politiche ormai schiave di un meccanismo ripetitivo. E se questo squilibrio (che in realtà è un tenue e, ad un certo punto, innocuo equilibrio misurato) riesce comunque a rendere l’intera vicenda godibile e forse il finale, nel suo freddo catastrofismo, a far cadere un cinema senza dubbio delicato, sia nella forma che nella fruizione.
Non che si sche(r)mi siano sempre da rompere, anzi. Ma vanno sempre, in un modo o nell’altro, arricchiti. E se questo film, con i suoi sparuti e disparsi pregi, rimarrà ai posteri per qualche motivo, significherà che l’intero genere a cui appartiene non ha mai veramente funzionato.
Dopo l’exploit veneziano di Une Vie, Stéphane Brizé torna sulla croisette con un’opera più vicina alle precedenti. La parentesi letteraria può dirsi chiusa, per riportarci al più crudo presente, alla sempiterna parabola sociale, tra precariato e lotta di classe.
Se col precedente La legge del mercato (2015) il regista aveva dato prova magistrale e sapiente nel trasporre in modo personale una delle tematiche chiave del cinema francese (e più in generale europeo) contemporaneo, con questo En guerre si ritrova (se volontariamente o suo malgrado) a dover piallare il discorso e la messa in scena tutta in nome di una coralità per i più difficile da gestire.
Già dal titolo possiamo trovare un’asticella alzata di molto: si mira a un omnicomprensivo atto narrativo che possa racchiudere in toto le molteplici sfaccettature e i drammi della lotta operaia. Per far ciò, Brizé abbandona una determinata intimità (quella che trasudava da ogni singolo frame di Une vie, quella sempre alle spalle di Vincent Lindon in La legge del mercato), per dare spazio a molte, troppe voci, all’interno di una vicenda che tutti, purtroppo, in un modo o nell’altro conosciamo.
Ed è purtroppo questo “che tutti conosciamo”, unito alla voglia/necessità di assurgere a compendio esauriente a rendere più che palpabili le principali lacune della pellicola. Se da un lato Brizé non riesce a dimostrare di saper gestire a pieno e in modo convincente fiumi verbosi (un nome per tutti: Laurent Cantet), dall’altro una certa semplicità/semplificazione assolutamente volontaria (perché appartenente già ad episodi precedenti della sua filmografia) cade di fronte all’esilità dei dialoghi e della vicenda tutta. Esilità ovviamente in senso lato, perché comunque ciò che ci viene dato riesce comunque a farsi riconoscere tra titoli in tutto e per tutto similari, ma a questi fin troppo facilmente riconducibile per modalità e mood. Si potrebbe dire che con En guerre Brizé si sia dato al cinema di genere, a un genere specifico (automaticamente alto quanto vi pare ma pur sempre un genere) senza dare quei colpi di leva, quei tocchi particolareggianti in grado di elevarlo.
C’è il tipico eccesso di carne al fuoco, in questo susseguirsi di riunioni sindacali, lotte intestine, inserti televisivi e momenti privati; in un cinema ormai fin troppo automaticamente “di denuncia”, fermo nelle sue prospettive cronachistiche e politiche ormai schiave di un meccanismo ripetitivo. E se questo squilibrio (che in realtà è un tenue e, ad un certo punto, innocuo equilibrio misurato) riesce comunque a rendere l’intera vicenda godibile e forse il finale, nel suo freddo catastrofismo, a far cadere un cinema senza dubbio delicato, sia nella forma che nella fruizione.
Non che si sche(r)mi siano sempre da rompere, anzi. Ma vanno sempre, in un modo o nell’altro, arricchiti. E se questo film, con i suoi sparuti e disparsi pregi, rimarrà ai posteri per qualche motivo, significherà che l’intero genere a cui appartiene non ha mai veramente funzionato.