This is Halloween: ovvero perché Trump ha rovinato (anche) il cinema americano
Esiste una piaga tra gli infiniti modi di produzione dell’audiovisivo, ed è quella che si colloca in una posizione che gli è nemica, non tanto perché ne impedisca la realizzazione, ma perché ne rende rozza la qualità: la tesi. Che è un po’ quella funzionale a certi tipi di scritti ai quali è congenita, per l’appunto la critica a tutto tondo, il saggio, un po’ accademicamente impartito. Ma molto poco dovrebbe avere a che fare con quello che si considera un risultato artistico dalle più svariate forme, rimanendo per comodità di focalizzazione sull’opera cinematografica. Reo di essersi macchiato di uno dei più alti crimini, il disimpegno, il cinema ora pare vivere una parentesi di fragilità costitutiva che lo vede incaricarsi del fardello di schierarsi apertamente – almeno per quel che concerne i lidi di produzione statunitense – contro il maleficio terrificante del trumpismo predicante inimicizia tra i popoli e che delle diversità fa sfregio; sì, il trumpismo, che ovviamente in America ha (aveva) contagiato anche l’intrattenimento per eccellenza. Come al solito, il piacere di piacersi passa anche attraverso la creazione di un antidoto a un morbo (Trump) che nemmeno dispiace così tanto. Non si campa senza una nemesi, direbbe qualcuno.
L’urgenza di un’operazione che possa scuotere la coscienza da una dumbness generalizzata che, quella no, non si limita ad essere a stelle e strisce, ha concorso alla proliferazione indefessa di una massa di prodotti (dall’indie alla grossa distribuzione) che nascono, e si promettono orgogliosamente di nascere, con e per un’idea. Vale a dire che tutto, all’interno della confezione, deve parlare e condurre a quell’idea, che si erge a manifesto riassuntivo del film, nonché a bacino di capitale importanza al di fuori del quale, è facile intuire, il lavoro non avrebbe motivo d’esistere. Quindi il film in sé non è più sufficiente? Anzi, il film diventa funzionale ad una sorta di campagna politica condivisa che passa attraverso, nessuna novità, le immagini?
Il cinema propagandistico è sempre esistito. Ma fa bella mostra di sé e si appropria dei canoni più leciti della retorica quando ne fa dichiarazione esplicita, preliminare. Fa parte del patto silente che stringe con il fruitore. Quando guardiamo un documentario di Michael Moore, ad esempio, sappiamo di trovarci di fronte a nulla di troppo differente da una metodologia propagandistica di linguaggio, ed è in quest’asserzione d’intenti rabbiosa che giace la sua forza. In quanto a molto del cinema documentaristico: la più alta forma di riflessione non passa forse attraverso la prassi osservativa (o un suo volersi avvicinare ad essa?). Si prenda ad esempio F. Wiseman, per rimanere agli Stati Uniti (che pure fa un uso narrativo di una pretesa d’invisibilità).
Tornando alla finzione, tuttavia: il surplus, che assume i contorni di spurgo congenito al malessere della nazione, di retorica cinematografica proposta all’interno del film drammatico, cioè dell’ipotetica preminenza dello storytelling, è il segnale preoccupante di un inebetimento (o processo che sicuramente lo coadiuva) del pubblico spettatoriale, che pare non esser più considerato in grado di leggere tra le pieghe d’ambiguità di una cinematografia che si fa sempre meno, che gran paradosso, libera.
Che sia netta la differenza col passato? Difficile a dirsi. Se non che la necessità di denuncia ammanta il respiro della narrazione e la rende letterariamente greve, così asfissiante da ucciderne le pure, in grandissimi casi, oggettive qualità formali. Se prodotti trans-generazionali pur particolarmente pensati per i teenager (“The Miseducation of Cameron Post” e Boy Erased” si allineano paralleli in versione girl/boy per la libertà sessuale e l’identità di genere) riescono ad eludere i tranelli della spossatezza declamatoria, per aggiustarsi su un registro di contestazione che solo marginalmente appanna le storie (ma poi non le vivifica), non rinunciando tuttavia all’enfasi oratoria del giovane che si appropria del sé rinnovato, quando ci si imbatte nel territorio dell’etica black ci si inclina vertiginosamente verso un’ascesi quasi apocalittica della rivendicazione dei diritti delle minoranze (ebrei e sud-americani chiamati in battaglia nell’intollerabile Jenkins, ad esempio, “If Beale Street Could Talk”, ma anche “The Hate U Give”, George Tillman Jr.), la cui castrazione viene illustrata, sfortunatamente, a parole, e sempre poco con le immagini. La cosa peggiore che può capitare è lo svuotamento dei personaggi, la cui forza narrativa motrice viene isolata generando un collasso, un patimento della caratterizzazione, cioè del loro essere vivi, e non marionette in mano a un imbonitore. Marionette che parlano di discriminazione e dolore, e non c’è un solo movimento, gesto o attitudine comportamentale che ne illumini la carnalità, le specifiche del suo esistere.
Spesso l’utilizzo del meccanismo di genere insegna all’elusione dello spettro ideologico, come succede felicemente in “Get Out”, Jordan Peele, che incastona in una parabola distopica (dove pure non tutti i bianchi sono mostri e non tutti i neri santi) una riflessione amarissima sull’incombenza (si dovrebbe dire sul rinnovamento) di un apartheid irrisolto. Oppure l’innesto comedy che, ancora una volta, riesce ad arginare le tentazioni retoriche nella costruzione degli sketch per imbattersi in un instant-cult come “Green Book”, Peter Farrely, tutto fuorché perfetto, ma assolutamente padrone di un linguaggio che non preme il pulsante della moralizzazione a tavolino. E pensare come appena vent’anni fa, in prodotti insospettabili e targettizzati, si prenda ad esempio “Save The Last Dance”, Thomas Carter, sorta di capostipite del revival del dance-movie in chiave teen, si riusciva ad inserire una sotto-riflessione sulle difficoltà di integrazione razziale in una città etnicamente vivace come Chicago. Ora si direbbe che la protagonista era bianca e che il fidanzato nero ovviamente aveva a che fare con la criminalità. Ma il punto è che proprio il razzista bianco va educato e che l’interlocutore ipotetico, limitiamoci alla storia, ha marginalmente a che fare con la delinquenza e non vorrebbe averci a che fare, non fosse l’amico fidato a chiederglielo. E questo è un fatto. Evitiamo la macro-parentesi di una specificazione tuttavia doverosa: esiste anche il nero (il discriminato) razzista. Ma questa è la storia della cangianza tra vittima e carnefice.
Quando il genere non si fa veicolo privilegiato, e quando non si è Kathryn Bigelow in “Detroit” (con tutte le reticenze del caso), un regista legittimamente incazzato finisce per smettere di fare cinema, e iniziare a fare politica, e decidere di fare politica con il cinema è ridondante (allora superfluo), giacché il cinema è politico per sua stessa ontologia. Si presuppone nell’atto e si manifesta nel risultato, la responsabilità dell’immagine e di cosa e come essa stessa veicoli. Salire sul pulpito e affermare, tramite l’incatenamento dialogico, quanto può essere, invece, dimostrato con le immagini significa sforare, uscire dall’ambito cinematografico ed entrare in quello letterario: cioè non fare cinema. Di norma il dialogo è un rafforzativo e lavora unitamente all’architettura visiva per discorrere, ma l’ideologia cannibalizza storyline e personaggi, così intenti a fare la storia del paese con l’audiovisivo militante (perciò Ryan Murphy mette insieme il più grande cast di attori trans-gender in “Pose” e poi si mangia personaggi, pilota sottotrame al fine di condurre quella stessa idea di rivalsa di una minoranza “chiusa” in sé stessa) da finire per sfondare la porta di un’auto-ghettizzazione per nulla riconciliante.
Persino un film “sulla droga” (e mai definizione può essere più azzeccata) come “Beautiful Boy”, F. Van Groening, certo incantevole nelle intenzioni e nella progettualità, probabilmente funziona soltanto per una fascia di spettatori poco svezzati, che non riconosce nella morbidezza dei sentimenti la pudicizia nell’affrontare la tematica fin troppo in punta di piedi, in una ricostruzione visiva educata e composta, dove il giovane malato scompare e il progetto pare essere un prontuario su come i genitori affrontano la tossicodipendenza dei figli. Allora c’è un’impossibilità di incontro sinergico tra impegno civile e crudezza materica dell’argomento? Gli aghi, la devastazione corporale, i sobborghi. Il travaglio è troppo garbato. Si può essere educativi, pedagogici (si deve essere) e allo stesso tempo brutali? Come al solito il messaggio deve scomparire. E allora diventare per pochi? Forse sì. Ma l’evidenza lancinante del found-footage a epilogo di “Blackkklansman”, Spike Lee (che pure fa retorica, talvolta con l’immagine, talvolta cedendo), i centinaia di volti neo-nazisti coperti da un cappuccio bianco in una fiaccolata d’orrore contemporaneo, è la dimostrazione plateale di come si possa, nella giustapposizione di immagini, veicolare un’idea di sensibilizzazione. E poi è un film di genere: i canoni del poliziesco si fondono alle declinazioni della comedy, e questo, tutto sommato, conta, nel bilancio complessivo.
Avesse dovuto, sempre, il cinema, veicolare solo e soltanto un’idea a priori, partitica, tante, troppe volte, schierata, poco chiaroscurale, non avremmo avuto Eastwood che gira “Gran Torino”. Fossero soltanto le storie enfatiche e declamatorie a impartire insegnamenti sul presente e sul futuro ci sarebbe una filmografia fatta da soli “Stronger”, D. G. Green (che pure era un buon film). Immaginatevi “ Elephant” di Gus Van Sant in un remake “a tema”.
L’impressione è di smarrimento. Smarrimento della libertà di essere scorretti, tanto quanto è in grado di urtare la sensibilità di tutti Craig H. Zahler con il suo ultimo “Dragged Across Concrete”, storia di poliziotti right-wing in una degenerazione al limite del consentito.
Nessuno si prende la briga di metterci di fronte all’abisso che è dentro di noi: preferisce trovarlo in un nemico di volta in volta diverso. Ma è da questo assunto che nasce la filmografia qui in esame, che altro non fa se non dividere il mondo a metà. Si tratta semplicemente di un cortocircuito.
È chiaro che siano felicemente passati i buissimi momenti in cui si è fatto, tra i tanti, del cinema dell’orrore macchiato di xenofobia (prima c’era l’europeo, poi il comunista, e via andando con un nemico nuovo), ma la paralisi di contenuto che impone sì, una presa di coscienza e una maggiore attenzione all’atto della creazione, finisce per terrorizzare dall’interno in una castità di attitudine, infine, nociva.
Possiamo affermare che le traiettorie di decadenza di personaggi “che non imparano mai”, centro pulsante del cinema di Scorsese, vampiri che dopo aver commesso nefandezze e delinquenze atterranno in piedi, siano prive di morale? Cioè che, pur non moralizzanti, non facciano critica della società?
Vogliamo dire che l’Henry Hill di “Goodfellas” o il Jordan Belfort di “The Wolf of Wall Street” non ci insegnino assolutamente nulla sul presente? Appunto.