L’ ARTE DI VINCERE – MONEYBALL di Bennett Miller
REGIA: Bennett Miller
SCENEGGIATURA: Steven Zaillian, Aaron Sorkin
CAST: Brad Pitt, Jonah Hill, Philip Seymour Hoffman, Robin Wright
NAZIONALITA’:USA
ANNO: 2011
USCITA: 27 gennaio 2012
BASTA VINCERE
“Così perdevano, imbattuti, per tutta la vita”. Una delle poche frasi che valga la pena citare da City di Alessandro Baricco, diviene inaspettatamente utile per inquadrare metaforicamente il sorprendente Moneyball; pellicola che torna a celebrare nel migliore dei modi possibili quel meraviglioso gioco meglio conosciuto con il nome di baseball. Bennett Miller teatralizza in tre atti il biografico romanzoMoneyball: The Art of Winning an Unfair Game di Michael Lewis, optando per un taglio registico che fa del lavoro stilistico in sottrazione e dell’asciuttezza dei movimenti di macchina il suo punto di forza visivo, lasciando che la pellicola trasudi empatica e spontanea emotività semplicemente liberando il respiro nei volti dei suoi interpreti e attraverso il dipanarsi della scrittura. Tornano in mente pietre miliari moral-sportive quali Blue Chips di William Friedkin (medesimo schema, opposta l’etica delle azioni) e l’immortale Jerry Maguire di Cameron Crowe: tanto Brad Pitt sembri pescare a piene mani dalle rispettive interpretazioni di Nick Nolte e Tom Cruise, cannibalizzandone il meglio e contemporaneamente facendone brillare, come ordigno luminoso nella notte, la faccia della medaglia tenuta precedentemente nascosta. Nonostante Moneyball si palesi, fin dalla sua primissima inquadratura, come un imponente esempio di grande cinema, l’animo, più che alla settima arte, sembra rivolgersi alla filosofia del suo sport di riferimento o, meglio ancora, a ciò che di esso è rimasto sul grande schermo. Ovvero una sfilata di “marchi” celebri, dagli onnipresenti New York Yankees (“la” squadra di baseball per eccellenza) ai leggendari Boston Red Sox (team che si esibisce in quello che i suoi sostenitori hanno ribattezzato la “cattedrale”, impianto sul quale per anni ha imperversato la “maledizione del bambino”), passando naturalmente per gli Indians di Cleveland: dopo Major League Baseball probabilmente la squadra più cinematografica del pianeta e, a voler fare i pignoli, troverebbe spazio persino The Fan: visto il numero di maglia, l’11, indossato dal giovane Pitt, guarda caso lo stesso preteso da Wesley Snipes nonostante, nella pellicola di Tony Scott, fosse di proprietà di Benicio Del Toro(«el once hombre»). Tappe durante le quali maturare una convinzione sabermetrica e quindi permettere a Sorkin, dopo The Social Networkdi David Fincher, di celebrare l’ennesima rivincita di un nerd geniale fin lì incompreso: con Jonah Hill qui chiamato a dare il cambio a Jesse Eisenberg sui gradini della scala che conducono, pur vedendo salire due personalità e sensibilità agli antipodi, verso gli status sociali più ambiti. Rispetto allo sceneggiatore non è da meno Bennet Miller che, in quanto a serialità emotiva dei personaggi, non scherza affatto: cucendo sul profilo di Philip Seymour Hoffman i panni sportivi di un Truman Capote arreso e rassegnato, pedina logorata dal tempo e dalle delusioni ora nelle mani matematiche di Pitt e Hill. Eccezion fatta per un senso del ritmo in grado di appesantire quel tanto che non guasta alcuni, sporadici passaggi, Moneyball rappresenta una sintesi cinematografica ad un passo dalla perfezione; se nella sconfitta esiste un retrogusto dalla sfumatura poeticamente appagante, che nulla ha a che vedere con la banalità celebrativa della “semplice” vittoria, alloraMiller è riuscito nel prodigioso intento di individuarlo: mostrandocelo in tutta la sua malinconica e perdente bellezza. Visto Moneyball sarebbe bene che qualche produttore lo porti di peso nel vecchio continente e lo metta di fronte alle VHS dell’Olanda di Cruijff: in quanto Millersarebbe uno dei pochissimi in grado di cogliere la vera magia “dell’arancia meccanica”. La stessa che rivoluzionò il mondo con il suo “calcio totale”, senza vincere mai nulla, bensì fermandosi sempre ad un passo dalla vittoria.
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