HUGO CABRET di Martin Scorsese

REGIA: Martin Scorsese
SCENEGGIATURA: John Logan
CAST: Asa Butterfield, Sacha Baron Cohen, Chloe Moretz, Ben Kingsley, Jude Law, Christopher Lee
NAZIONALITA’:USA
ANNO: 2011
TITOLO ORIGINALE: Hugo
USCITA: 3 febbraio 2012

«L’ODORE DELLE ROSE È UNA REAZIONE CHIMICA. SE UN GIORNO LO SCOPRISSI NON L’AMERESTI PIÙ?»

Scriver di Scorsese non necessita di nessun preambolo: il suo diritto ad esplorare è talmente aldilà che anche l’ipotesi d’immobilità (più o meno) scelta è dinamismo.

Hugo Cabret ha bambini; non è per bambini; è più adulto di Shutter Island (giusto il primo film di fiction antecedente): fuori dalla tempesta e dal turbamento, linearmente esplicativo, sintetizzato, senza inquinarsi, senza permettere al proprio corpo-film di autodefinirsi, di criticarsi, di martoriarsi (le folies di montaggio di Casinò nei 90s, di The departed negli zero), di (ri)tagliarsi nelle proprie contraddizioni nello scontro di inquadrature e di umori.
Non il Cronenberg visivamente (eccessivamente) silente di A dangerous method, ma un rilancio estremo al ribasso dell’entropia, che forse – qui la banalità del disappunto – è la pura e semplice mancanza di un villain, personificato o soffuso che sia: volute coralità e comunione, della stazione-teatro, tutti i personaggi tendono alla stessa precostituita risoluzione, tanto già-pronta che qualsiasi conflitto aggiunto sarebbe risultato posticcio quanto il ratto gigante di Lilli e il vagabondo. Non è un Effetto notte quello ricercato, non c’è nessun fabuleux destin. Il tratto grezzo-quasi-primitivo del volume di Brian Selznick ha più corrispettivo in A Christmas Carol di Zemeckis nel suo buio/luce/profondità/malattia. L’attenzione di Scorsese è altrove.

Il circuito, il meccanismo: devono funzionare, devono essere limpidi, senza che nemmeno il feticismo per gli stessi s’intrometta. Non la fascinazione di The aviator. Messo del tutto da parte l’atavico-narrazione, tutto ciò che conta è quella porzione (non abbastanza massiccia) dell’atavico-narrato, tutto ciò che conta è Georges Méliès, il fu Georges Méliès, unico autentico fantasma del film, lontano anche dal corpo-volto di Ben Kingsley, unico padre di un Cinema (il Cinema) che sia lavoro, work, clockwork in tutto e prima di tutto, se il Cinema dei Lumiere è ridotto ad un microcameo alcolico e sudato di Michael Pitt.
Un’intimidazione, il parlare di Cinema in Hugo Cabret: l’atto-cinema di Scorsese questa volta distingue pannelli-illusione-3D ed insieme li decompone: il gioco ottico di una vasca di pesci messa davanti all’obbiettivo ad arricchire un set marino vale nel momento in cui viene svelata; il mantenere in funzione gli orologi della stazione di Hugo sta con lo slinguazzare di longtake 3D come il lavoro di Méliès rimane semi-inaccessibile in un montaggio insipido, i film dei Lumiere mostrati e quelli di papà Georges smontati – scomporre il Cinema per parlare di Cinema.

Non c’è gloria, ma solo memoria, ricordo, lezione. Hugo Cabret è un film pre-emozionale, un invito al documentario, Sartre ribaltato, l’appunto per cui prima di ogni spasmo spettatoriale c’è un rullo di pellicola che gira, un sensore che digitalizza. Dei set. Degli attori. E il loro, di spasmo.

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