ACROSS THE UNIVERSE

REGIA: Julie Taymor
SCENEGGIATURA: Dick Clement, Ian La Frenais
CAST: Jim Sturgess, Evan Rachel Wood, Joe Anderson
ANNO: 2007


A cura di Pierre Hombrebueno

MORE PSYCHEDELIC YUPPIE FLU

La cosa più interessante di Across the universe, che ne forge la forza e contemporaneamente i limiti, è il suo essere continuamente e pervasamente Naif ma calcolato allo stesso tempo. Infatti, la Taymor, incarnando i suoi giovani protagonisti, chi scappati da casa e chi in cerca di una carriera da musicista, assorbisce necessariamente anche il loro sguardo anarchico sul mondo, che nel Cinema si traduce dunque nella decostruzione (poi ricostruzione) dell’immagine e nel formalismo che offre la macchina da presa: quasi sempre sull’onirico (in ciò potrebbe ricordare quell’altro I’m not there di Todd Haynes), piena di espedienti fotografici sulle immagini come l’accentuazione e iper-splosione di colori, i rivoltamenti cromatici, e paint effects che fanno dell’universo di quest’opera, qualcosa di intrippante e gioiosamente pop, istintivo, fresco come un fiore immaturo ma pieno di vitalità. E come non potrebbe, in fondo il tutto è un omaggio al gruppo più celebre di tutti i tempi, i Beatles, la cui musica scorre in ogni scena, con canzoni ri-arrangiate ma sempre contestualizzate alla storia e alla narrazione.
L’occhio della Taymor è fanciullesco nello stesso modo in cui si permette di giocare con le immagini che crea, nel rendere sotto lsd le varie sequenze che non perdono mai quel sapore di retrò, di anni 60’, in un racconto che se a prima vista potrebbe sembrare formativo (se non politico, con tutti i riferimenti alla guerra del Vietnam, per non parlare di uno dei protagonisti, Max, che viene arruolato come soldato), è invece un penetrare dove la psicologia e la morale rimangono sempre su uno sfondo inesplorato, in quanto la prima cosa che conta, e qui sta la Costruzione (e l’essere Consapevole) della regista, è l’impatto emotivo ed enfatico delle scene con la canzone più adatta per ogni situazione. Ciò che conta, in Across the universe, è la sua Audio-Visività, e capiamo l’enorme responsabilità della Taymor, ambiziosa e rischiosa allo stesso tempo, di dare immagini concrete alle canzoni fra le più famose della Storia della Musica (qualcun altro c’è riuscito pochi anni fa, e si chiama Baz Luhrmann), ed equilibrarli in una perfetta armonia, in un bilancio dove brani e immagini s’intrecciano senza lottarsi, bensì compenetrandosi in simbiosi.
Possiamo dire che l’intento è più che riuscito, in quanto molte sequenze del film sono subito antologia e memoria cinefilica, come quella della partita a bowling, nostalgico quanto un American Graffiti che si tinge di pop psichedelico, o i funerali sulle note di Let it be, capace di restituire ciò che ha significato tale canzone nel corso di tutti questi anni, e contemporaneamente di farne un ritratto di immagini attuali, forse banali ma necessari, comunque fortissimi nell’impatto che hanno su grande schermo.
Non siamo in un territorio concettuale (assolutissimamente no), ma ciò che la Taymor propone è comunque un’Esperienza quasi di Arte-Visiva, un’assorbire, sperimentalmente parlando, delle immagini che scorrono su una musica che gli fa da sfondo. Non c’è nemmeno un vero plot (anzi c’è, ma è banalissima e trascurabilissima), la prerogativa non è tentare di seguire dei fatti o degl’avvenimenti, ma solo rimanere seduti ad occhi aperti e orecchie spalancate, godendosi al massimo questo giro in acido di un Cinema che come la musica che propone, è rimasto indietro di 40 anni, con uno sguardo fisso sulla nostalgia di altri tempi (e altre vite), con un perpetrare e citare continuamente proprio quei film underground e sperimentali del New Cinema che dei sottoborghi psichedelici ed elitari fece la propria casa.
Ma tutto ciò finisce, irrimediabilmente, a costituire anche il limite dell’operazione che la regista ha condotto, perché se è innegabile un’abilità nella costruzione delle singole scene (o singoli video-clip, possiamo dire), non altrettanto si può affermare della gestione sintattica. Più volte si ha il pensiero che il tutto non sia che una schiera di bei video-clip isolati fra loro, o comunque connessi con poca fluidità, fatto sottolineato dalle dissolvenze in nero che chiudono ogni sequenza musicale, un po’ come quei silenzi di qualche secondo del passaggio tra una canzone e l’altra in un Cd. Con la differenza che il Cinema non è un Cd, e per quanto in un film convivano tracce diverse, queste devono essere inter-connesse fra di loro con una certa logica e una certa coerenza narrativa. Non cerchiamo il pelo nell’uovo, ma va constatato che soprattutto nella prima parte del film, le varie storie e i continui arrivi di nuovi personaggi difficilmente si compenetrano con compattezza, e l’impressione è quella di assistere ad un Dvd di video-clip dei Beatles, che saranno pure bellissimi video, ma rimangono lì, isolati tra loro proprio come sono isolate le varie tracce di un Album che di conceptual non ha niente. Forse ciò era proprio l’intenzione della Taymor, fare una compilation di belle immagini e bella musica, cercando di far incastrare il tutto nel più elementare dei modi.
Across the universe poteva essere di più? Certo che poteva essere di più. E per “più” intendiamo proprio più “cinematografico”, ed è alquanto paradossale affermare tutto ciò, in quanto poco sopra abbiamo affermato la capacità enfatica della Taymor nel costruire immagini e legarle alla musica. Però, ciò che differenzia Cinema e Arte-Visiva è proprio soprattutto la sintassi, che in questo film è palesemente forzata quando percepibile, e narrativamente confusa quando non la è.
Ma in fondo, che cazzo dire e pretendere. Qui siamo negl’anni 60’. Siamo nel psichedelico. Nel pop. Siamo a New York cazzo, e per di più hippy e narcotizzato. A quel punto la sintassi se ne vada pure affanculo, ed emozioniamoci sulle note di All you need is love, cantato sul tetto di un palazzo e terminato con uno sguardo che diventa fermo-immagine di una riconciliazione tanto sensibile quanto bella.

 

(25/11/07)

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