ALAIN RESNAIS: QUANDO LA SUA GUERRA NON ERA ANCORA FINITA – 2° PARTE
Originariamente pubblicato il 9 aprile 2006
LA TRILOGIA DEL TEMPO, NEVISCHIO DI PERCEZIONI SULL’INCOMPRENSIBILITÀ UNIVERSALE
1959-63. Quattro anni, tre film, una tappa fondamentale nella storia del cinema. In realtà i tre (tre come numero perfetto e indivisibile, come sinonimo di perfezione riscontrabile ad ogni calcolo nel grande processo vitale) film potrebbero essere interpretati come uno unico, un’insieme di raccordi che, nelle tre parti, espongono concetti differenti ricondotti però alla medesima verità.Tre film che fanno luce (?), che mettono in guardia, che dissimilano le poche certezze apprese dall’esperienza umana. Rivoluzionaria, studiata, mai compresa in tutte le sue sfaccettature, la trilogia “del ricordo”, Hiroshima-Marienbad-Muriel, resta senza dubbio il punto più alto mai toccato dal regista francese. Inquesto agglomerato, che in più di un’occasione sembra sfiorare punti di sperimentazione o di estrema avanguardia, è racchiuso l’algoritmo che regola, almeno secondo Resnais, il cardine dei meccanismi che ogni infinitesimale frazione di millesimo di secondo sostiene la vita in funzione dell’arco temporale totale. Tutto è quindi ipotetico, niente si basa su dati, prove o quant’altro abbia potuto asserire che anche solo questo tessuto pregno di dinamismoesista o sia mai esistito. E la (non) certezza di dipendere realmente da filamenti facenti capo a un punto centrale assolutamente sconosciuto e inesplorabile (per com’è la società odierna, per lo stato attuale delle cose) fa si che la sfida del cineasta sia ancora più gustosa, una volta meritatamente vinta, se così si può dire. Se infatti questa triade di non-racconti (la negazione come oblio, il limite invalicabile a cui è costretto a fermarsi anche la mente dell’artista) può comprensibilmente arrivare a un certo gradino, per quanto alto, della scala della conoscenza secolare, non può chiaramente esplicare nessuna verità assoluta.
Tutto ha inizio dall’idea di inscenare un romanzo di Marguerite Duras, dal titoloHiroshima mon amour. Parallelo come già detto all’avvento della NouvelleVague nel cinema mondiale, l’omonimo film suscita le reazioni più disparate. Dopo poco tempo infatti verrà attaccato da alcuni membri della rivista CahiersDu Cinema, in particolar modo dal critico-regista Jean-Luc Godard (Rohmer:”Saremo tutti d’accordo nel dire che Hiroshima mon amour è un film del quale si può dire di tutto” Godard:”Cominciamo allora a dire che è letteratura”) perché appunto legato in maniera quasi indivisibile al testo scritto (caratteristica del movimento della Rive Gauche) e perché non dava alcun punto di riferimento a un qualsiasi tipo di spettatore. In realtà (e anche per i motivi sopracitati) il film è un capolavoro (semi) inarrivabile di una profondità inaudita.
A Hiroshima un uomo e una donna, diversi (ma identici per altri aspetti) hanno una relazione turbolenta in seguito all’accavallarsi di sensazioni passate, future e presenti (queste ultime racchiudono le altre) che scorrono nella memoria diEmanuelle Riva (l’attrice che veste i panni della bella francese) come conseguenza del rapportarsi con Eiji Okada (l’attore che impersonifica la figura maschile del racconto). E il ripetersi, incessante e abbagliante, dei tentativi di far rimanere la donna nella terra del (non) ricordo è parallelamente il tentativo di stazionare la memoria in un punto fisso del tempo.
Il primo quarto d’ora è uno dei punti chiave nella vita artistica di Alain Resnais: documentario imponente, ordinato e senza compromessi, all’interno del quale i dialoghi squadrano ripetutamente le immagini che ci vengono sottoposte dallamessainscena. Ospedali, piazze, istituzioni di una collettività pubblica stordita-annientata dal processo troppo insaziabile dell’uomo moderno (Hiroshima comeGuernica, il progresso finalizzato al male che travolge quei “tristi ma così dolci spettatori”) il cui sviluppo consequenziale rispecchia il terrore e la paura di essere, a propria volta, annullati (leggi guerra). Il tempo si ferma, sarà la prima di una lunga serie di eventi simili, per dar modo all’impasto audiovisivo di proseguire il suo corso (in)naturale. Il nome (fantasma) della città giapponese torna a ripetersi e a consumarsi nei fitti e intricati discorsi dei due giovani (non esiste nome per queste creature X e Y, ad avvalorare l’ipotesi che siano solo pedine sfruttate saggiamente e poste con cautela su un grafico spazio-temporale) , quasi ad esorcizzare l’avvento del ritorno (fantasma, anch’esso) al futuro (futuro..passato, non ha molto più molto senso questa distinzione arrivati a un certo punto dei film di Resnais) della vita a Nevers, città natale (e quindi passato, ma…vedi sopra) e culla del sogno-ricordo attaccato inesorabilmente al cammino temporale della amante.
E in quella culla sono custoditi legami passati (sempre presenti, probabilmente o quasi certamente futuri, perché pur affievolendosi rimangono indelebili,inscalfibili) che vedono sovrapporsi ciclicamente (altra caratteristica dei film diResnais, la reale possibilità di vedere un film dalla fine sovrapponendone l’inizio, in una serie infinità di ripetizione che pregiudica l’esistenza di un finale) le due identità relazionali, quella del soldato tedesco, ex perduto amor (nel senso di un amore sconvolgente ma anche interrotto, ancora una volta, dalla simultaneità del fronte bellico), e l’attuale amante nipponico, figura ambigua per quanto concerne il sentimentalismo e la passione che brucia(va) nella donna.
Due giorni, in cui queste tre sagome (l’individuo femminile, e il doppio stato –passato come l’amore perso a Nevers e presente come quello ritrovato nell’amante attuale- fisico maschile)
si mescolano, si amalgamano morbidamente (nei film di Resnais il concetto di unione, di crogiuolo, non è mai interpretato come qualcosa di drastico, ma scivola lentamente e sottilmente per tutta la durata della pellicola) in uncontinuo-accennato (la contrapposizione di estremi differenti al fine di fare chiarezza è solo uno dei tanti simboli strutturali pescati dal catalogo diResnais) flashback che si snoda in infinite direzioni (tutto il secondo tempo ne è la prova lampante).
La foce, il risultato di questo esperimento è la degna (ma apparente) conclusione delle vicende, almeno sul piano della narrazione. In questa sessione i due attori si inseguono, si amano, si lasciano e ancora una volta si riprendono attraverso le vie illuminate (dai lampioni si, ma anche da un sublime bianco e nero gestito da un grande maestro della fotografia, Sacha Vierny, in collaborazione con il giapponese Takahasi, a sottolineare un parallelismo anche nei ruoli più tecnici) di una Hiroshima sempre sveglia, sempre vigile e illuminata, sempre attenta che il ricordo del soldato tedesco possa divenire finalmente un’unica cosa con l’uomo appena conosciuto eppure da sempre nella vita della donna. E quando l’uomo giapponese, come non mai sinonimo dell’oblio passato, dell’amore perduto, sembra ottenere la volontà della donna a restare con lui, ecco che questa svanisce (Ne siamo davvero sicuri? E soprattutto, siamo davvero sicuri che questo particolare nasconda una anche solo minima importanza?) in quella che ormai è la mattina a Hiroshima. E, una volta arrivatialla fine, si concorda che probabilmente l’affermazione più veritiera dell’opera è racchiusa nelle prime battute (inizo-fine ancora una volta scambiati sottilmente), quando il giapponese sussurra alla donna “Tu n’as rien vu a Hiroshima”. Forse lei non ha visto davvero niente, forse lei non è mai stata a Hiroshima, o forse l’oblio del ricordo non le ha mai permesso di vedere realmente.
Se con questo lungometraggio Resnais compie i primi, giganti, passi verso un cinema distaccato e privo di apparente razionalità strutturale nello snodarsi dell’incipit supportato dall’elaborazione irragionevole della sceneggiatura, con il film successivo, L’anno scorso a Marienbad, il regista conclude (quasi definitivamente) ogni discorso lasciato in sospeso, destinando però sufficiente spazio all’enorme postilla che seguirà tale secondo gioiello.
L’Anno scorso a Marienbad ha infatti il compito di estremizzare maggiormente gli input sferrati da Hiroshima mon amour, e per farlo si avvale di una tecnica tanto oscura quanto astratta, con lo spettatore che si chiede ciclicamente perché i sensi non siano più legati l’un l’altro.
Film indefinibile perché indefinito, buco nero che assorbe il cinema nel suo essere arte, L’anno scorso a Marienbad, che rompe ogni sorta di schema nell’approccio ragionato alla visione di un lungometraggio, è sostanzialmente un punto di non ritorno, totale.
Film amato e odiato (in maniera sconsiderata in ogni caso, non esiste altro modo di rapportarsi con l’opera), studiato/criticato strenuamente per anni, vede ancora protagonisti un uomo X (interpretato da Albertazzi) e una donna Y (Delphine Seyrig) su una scacchiera temporale che collide col passare dei secondi.
Realizzato con il consueto distaccamento dalla standardizzazione realizzativa-interpretativa di un lungometraggio, Marienbad è narrazione alterata su sinusoidi temporali di un cinema circolare (pellicole il cui finale può essere attaccato all’inizio all’infinito) e al tempo stesso parabola omaggistica della vita come antitesi dell’oblio accumulato nei secoli.
La trama è talmente (volutamente) scarna da risultare banale, dato che lo spettatore osserva una coppia di (apparenti) sconosciuti discutere per (tanti) fugaci momenti su chi dei due abbia ragione sulla (non) constatazione di un (in)certo incontro, avvenuto un anno prima in uguali circostanze. Il pubblico capisce subito, infatti, che non è importante tanto da che parte sia la ragione sui fatti di un’ipotetico anno prima, quanto la dinamica con qui si svolgono quelli presenti e futuri, conditi da dialoghi di alto livello lessicale a simboleggiare l’ambiente aristocratico installato nel palazzo. E quando le vicende sembranodelinearsi, ecco che si piomba nuovamente nella martellante successione di costumi ritratti nei loro comportamenti tipici (le persone ai bordi delle sale che parlano di argomenti di una piattezza cercata, l’uomo che non perde mai al gioco con le carte, i tiri con la pistola nel poligono) e intrecciati dall’elegante movimento della inquadratura che spazia ora sulle accurate e rigorose stanze, ora sul carattere ostinato del personaggio maschile (senza nome, senza un’identità che lo possa collocare in un qualsiasi momento vissuto dall’altro personaggio principale).
L’ossatura originale non risiede ne in questo ne tantomeno nella critica descrizione dell’ambiente sociale inserito all’interno della sfarzesca pensione (prigione). La voce fuori campo accostata all’immagine evade dal classicismoResnaisiano, che utilizzava questo tipo di tecnica per rafforzare la potenza visiva costruita: in questo circostanza la VFC possiede un livello narrativo personale, che si aliena dalla sequenza filmata ma paradossalmente la intensifica. Udiamo quindi questo tetro e sottile espediente descriverci accuratamente (nell’incipit il timbro e le incessanti ripetizioni delle locuzionirisultano inquietanti) prima la spigolosa architettura interna (intarsi,porte,corridoi) nella quale traspare il materialismo dell’ambiente sociale in essa instaurato per poi snodarsi a turni tra le parole dei due protagonisti. Inquesto ultimo caso la VFC si fonde con le voci degli attori e il ricondurre una determinata frase a un’altrettanto determinata immagine risulta estremamente difficile.
La geroglificità dell’opera risiede però nella prassi (ripresa poi in Muriel, il tempo di un ritorno) con cui Resnais esplicita il precedersi ed il susseguirsi di azioni passate, presenti e future, su una complicata se pur ridotta griglia di legami interpersonali: i discorsi di una borghesia fin(i)ta, plastica e stucchevole vengono usati come rimandi al nucleo vero e proprio, al nocciolo del film, il vorticoso relazionarsi di Albertazzi e la Seyrig; le destinazioni fotografiche ricorrenti come saloni, scale, specchi rimbalzano spigolosamente nella mente dello spettatore intrecciando, insieme a un montaggio forsennato e allucinato, un simbolico loop del quale nemmeno la fine della visione è l’uscita sicura; l’anima (e l’occhio) della macchina da presa si perde nei labirintici corridoi collegati in un impianto (l’albergo) i cui settori sono nascosti nella mente del regista stesso (solo l’artista-creatore conosce la soluzione dell’enigma inventato, allo spettatore “restano” le presumibili decodificazioni del rebus).
Inoltre il francese destina un calibro cruciale alle figure centrali dell’opera, abbozzando in tal modo un triangolo isoscele la cui base è formata da X e Y, i due punti-persone in costante dibattito, sormontate da un’entità superiore, il marito della donna, il vertice del poligono che sovrasta-controlla le sub-coordinate.
L’uomo è si caparbio ed incaponito ma anche sensibilmente convinto della (sua personale) verità, tanto che riesce a modellare lo stato pseudo-confusionalesebbene completamente cosciente della Seyrig. Il regolare tintinnio che intercorre tra i due (mai così uniti) litiganti sfocia in crescente ambiguità/sensualità e parallelo annullamento di tali emozioni, performando un (a)simmetrico scambio di personalità irregolari inserite nella grande orgia concettuale in cui figurano tutti gli elementi fisici (l’uomo come intarso, l’anima come specchio) e psichici (non è un caso se i movimenti dei due attori non sono mai sorretti da un se pur minimo filo logico – i corpi si spostano anzi in maniera praticamente telecinetica -). Il marito (?) della donna è la figura più affascinante: sempre posta in secondo piano rispetto alla scena in corso, si affaccia solo per dimostrare consapevole superiorità in vari campi (partecipando al proprio singolare gioco di carte asserirà “posso perdere, ma vinco sempre” ) o per redarguire (ma anche qui il comportamento è eccessivamente ambiguo, quasi non curante al tempo stesso) la moglie quando sembra destinata a partire con il testardo sconosciuto (?). Le tre entità si mischiano e si avvicendano nel cuore dell’imponente ed inscalfibile palazzo, sconfinando però talvolta nel metafisico (le ombre delle piante in esso cosparse ordinatamente non vengono riflesse al contrario di quelle umane) giardino, mondo distaccato dall’ albergo-pianeta. In esso la coppia principale si apparta timidamente, riscopre particolari fondamentali della pseudo-relazione vissuta l’anno prima (e l’anno prima ancora, e ancora, la storia può essere riavvolta incommensurabilmente) e stipula le clausole per il futuro legame (esisterà mai?), la vita successiva seguente l’utopica fuga dal passato/presente/prigione.
Se L’anno scorso a Marienbad è entrato di diritto nella storia (e premiato con il Leone d’oro 1961) è anche grazie al culto, al mistero che attorno ad esso si è depositato per anni. Studiato e interpretato sino ad oggi, il mito è stato nondimeno criticato aspramente (come già successo per Hiroshima monamour) per la sue radici puramente letterarie, commissionate stavolta a AlainRobbe-Grillet.
La fotografia (Sacha Vierny) ha un peso equivalente a quello registico(intenzionalmente nullo è in questo caso l’apporto del suono di sottofondo a sottolineare un ambiente rigido, asciutto) ed è influenzata da noti indizi pittorici, spazianti dal cubismo di Picasso alla corrente più futurista per spingersi fino ai limiti del surrealismo. Pertanto ogni frame è riconducibile a un qualsiasi dipinto di Escher, e le tecniche di cui abusa il montaggio non fanno altro che avvalorare la tesi. I quadri appesi alle pareti delle sale sono a loro volta ipnotici e vorticosi, inghiottiscono la solidità ambientale e l’attenzione del testimone-spettatore. Nell’ultimo, fatale, fermoimmagine è impossibile non ricordarsi di Magritte e del suo L’impero delle luci, disarmante manifesto surrealista che nel film viene riproposto sulla facciata notturna dell’albergo, quando il ciclo è pronto a concludersi al fine di rinascere, ossessivo e interminabile, all’inizio di una (necessaria) ulteriore visione.
L’anno scorso a Marienbad è dunque un punto di non ritorno, ma l’astuzia di Resnais gli permette di introdurre la postilla (di lusso) che va a concludere la trilogia.
Si tratta di Muriel, il tempo di un ritorno, girato due anni dopo Marienbad (1963), dal quale estrapola e rielabora diversi concetti. Naturale risultato dell’addizione di Hiroshima mon Amour (il tema della guerra e dell’amore/odio documentato a cavallo tra francia/giappone/algeria) e appunto L’anno scorso a Marienbad (sfasamento e collasso dei piani temporali, deinterlacciamento dei dialoghi e della messainscena, rimbalzanti stacchi e cambi stilistici, situazioni concatenate e personaggi seminascosti), “Muriel ou le temps d’un retour”, apparente parentesi lineare (in parte è così), è il più sottile, labirintico e stratificato gioco creativo dei tre punti concettuali che formano la trilogia del tempo. La mutante Delphine Seyrig da ricca aristocratica tormentata nel suntuoso edificio di L’anno scorso ci viene ora presentata come casalinga di mezza età, imprigionata a Boulogne, cittadina di provincia dove tutti sembrano conoscere tutti e non conoscersi affatto. Imperversa immediatamente un parallelismo generazionale vertente sull’arrivo della coppia Alphons-Francoise (dichiaratisi parenti, sono invece compagni con una sensibile differenza d’età) la quale si stabilisce a casa di Helene (Seyrig) e del figliastro Bernard. Il nucleo famigliare sembra così delinearsi, tutti i personaggi hanno caratteristiche che li rendono diversi dagli altri ma direttamente legati (basti pensare alla genetica somiglianza tra i due uomini, giovane e anziano, o a quella generazionale del ragazzo e della ragazza, per ritrovarsi in una rete che tocca tutti i punti senza esclusioni) per altri aspetti: da questo intreccio si andranno a svelare ulteriori rapporti, a poco a poco spuntano nuovi volti che siedono alla grande tavolainbastita da Resnais per le sue creature. L’uomo si confronta nuovamente (tesi evidenziata esponenzialmente nei precedenti lungometraggi) con l’ambientazione spazio-temporale (Boulogne come comprensorio presente di fredde emozioni derivanti da un passato spietato) che conferma l’ambiguità non di un determinato ambiente (come quello puramente aristrocratico di l’anno scorso) quanto di una determinata stirpe, quella umana, che inghiottisce il passato utilizzandolo spesso incoscientemente (tema dei corti, nuti e brillard, Guernica).E Muriel chi è? Nuovamente (altra caratteristica importata da Marienbad) una parte del titolo è nascosta nei discorsi e viene menzionata (quasi richiamata) nei meandri più oscuri: sappiamo infatti che è esso è il nome della (fantomatica) compagna di Bernard persa per sempre in Algeria (una relazione personale stroncata da qualcosa di troppo grande per essere controllato, come accade in Hiroshima Mon amour), forse sterminata dai selvaggi abusi dell’uomo.
L’importanza di un personaggio velato (ma ad ogni modo centro nevralgico delle azioni/reazioni di tutti gli altri soggetti) come Muriel è determinante quanto i dialoghi, architettati ad hoc per spremere la rabbia (condizione imprescindibile del genere umano, direbbe ancora Resnais) dai pori di questa gente comune munita di una propria storia (passato) personale e immutabile, che vorrebbe rispecchiarsi nel presente ma che non trova le condizioni per farlo (se il passato è quasi sempre collegato al RICORDO, felice appunto perchè defunto, il presente si stringe ad altri stati psico-fisici, quasi sempre negativi): l’esito è una stremante scalata attuata per raggiungere qualcosa di irraggiungibile (la serenità – eterna? -), al quale vertice è affissa la condizione degenerante interiore di ogni minuscolo essere vivente. Succede anche alla famiglia di Muriel, il tempo di un ritorno, dopo aver spinto troppo il pedale emotivo-relazionale: gli effetti sono differenti, ma ugualmente riconducibili allo stesso presupposto, allo stesso processo che porta la scintilla a scalfire la stasi degli eventi.
Di nuovo (dopo Hiroshima e L’anno scorso) viene portato alla luce ilmicro/macrocosmo Resnaisiano, nel quale il singolo frame, la specifica situazione potrebbe essere copiaincollata (per quanto ne sappiamo noi della strutturazione dell’imbroglio temporale) all’infinito (un giorno è un giorno? e un secondo?) senza apparire come successione interminabile, l’atto finito che ne nasconde mille copie (varianti? Se su ogni diapositiva successiva trovassimo una differenza – pur essendo infinitesimale – il risultato sarebbe una n-esima sequenzialità divorata e profanata dall’errore), facendo tornare d’attualità il tema dello spazio-tempo come forma (im)perfetta di incalcolabile (im)precisione.
Boulogne è quindi la città Hiroshima e l’albergo di “l’anno scorso” allo stesso tempo, è ossia la medesima trappola mentale da cui è impossibile fuggire se non nel (ipotetico) finale (la fine non come atto terminale bensì come propulsione verso il futuro – sappiamo infatti che la donna parte da Hiroshima come la figura X dall’albergo , qui sarà Alphouns a farlo -) ma è anche lo specchio del ricordo (truce, tormentato, sorretto dalla crudeltà di scene indelebili) che puntualmente si frammenta sull’inerme animo umano. Il tempo è poco/infinito, il trascorrere qualche giorno è in realtà il sopravvivere per infinite giornate (tentativi): serve a poco, ormai lo sappiamo, scandire il tempo in base ai mutamenti genetici dei personaggi (pedine) del regista, basti pensare all’inossidabilità dell’uomo e della donna di “L’anne derniere” che si ripropongono,inscalfibili dal e nel tempo, ogni anno nello stesso periodo (??) all’interno della suntuosa dimora, o ai cambiamenti evidenti nel giro di pochi giorni (ore?anni?) trascorsi a Boulogne da Alphouns (sarà proprio la compagna Francoise a fargli notare il fatto : “Sei diventato più vecchio da quando siamo qui” – senza però mai far riferimento a un periodo preciso e soprattutto finito). La cura con cuivengono descritti i personaggi è estremamente particolare nel proprio corso, per certi versi maniacale (l’insicurezza della Seyrig che si incanala nelle esigenze relazionali e psico-fisiche – rapporti umani, denaro – , la chiara determinazione di Kérien-Alphouns, la sfacciata onestà di Bernard e la smania giovanile di Françoise, a loro volta microcosmi dal profilo noto che si incastrano con quello altrui nella più tipica rappresentazione di interlacciamentoesistenziale) e per altri sfocata, volutamente imprecisa e confusionaria (è il caso di quasi tutti gli altri personaggi che non rientrano nella cellula semi-famigliare dei quattro attori principali). Si plasmano in ogni caso diversi paradigmi di meta-cinema libero e personale, il cui esempio più evidente (il giovane Bernard) rappresenta anche in parte Resnais stesso: Bernard filma, documenta, rinchiude ricordi e sensazioni (sia parole che immagini che l’unione di entrambe, a seconda delle tecnologie utilizzate) nei diabolici strumenti-feticci, le sole armi artificiali (ma derivanti dal pensiero umano) per fermare la cinica avanzata dell’eterno lasso temporale.
La moltitudine di decisioni stilistiche è sorretta dall’originale e apparentemente sobria (a tratti ogni paradigma utilizzato si manifesta irrecuperabile rispetto al disegno preimpostato) costruzione tecnica: l’autore si serve infatti della garanzia di Sacha Vierny, il trasformista al servizio della fotografia, in grado di mutare i toni di Muriel (primo film interamente a colori di Resnais) in un quasi bianco e nero (cupo e insaziabile come quello adottato nei due precedenti capitoli) di straziante malinconia, per ricordare gli orrori (del passato globale) attraverso le rovine, il grigiore della provincia e della (sempre protagonista) plasticità umana. A completare il quadro (l’imprevisto gioco di parole porta ancora a considerare come tutti i film di Resnais non siano altro che “strategie implementate su magiche tele”) affiora l’insieme di suoni extradiegetici curati da Georges Delerue (ora barocchi ora moderni, sempre comunque congiunti con estrema efficacia e consapevolezza filmica all’immagine) i quali inizialmente appaiono amalgamarsi in modo puro e normale ma che scopriamo prendere rapidamente il sopravvento sull’aspetto visivo. Il ritmo è perciò presto scandito dai timbri e dalle musiche, gli stacchi (che spesso calzano l’identica frequenza usata nell’alternare campi lunghi a primissimi piani) e le dissolvenze (poche) hanno nuove prerogative in funzione del sonoro.
Gli strumenti impiegati per legare tale vasta e complessa pila di eventi in maniera originale sono pertanto quelli collaudati precedentemente dall’autore, che raggiunge con Muriel la maturità definitiva e consacra i tre (o uno sintatticamente grande e completo) film-tasselli nella storia di un cinema affascinante e irraggiungibile, figlio del teatro, della letteratura e delle arti figurative, il quale però non rinuncia mai a soffermarsi sulla condizione umana nel momento in cui essa viene attaccata da forze preponderanti e inaccertabili. L’unica via d’uscita, direbbe Resnais, dal caos evolutivo propagato dalle diverse disposizioni nodali (passato-presente-futuro), è perciò l’identificazione di tale schema attraverso l’irrazionale potere dell’arte, il quale non muore al tramonto ma si consolida e si rinforza ad ogni nuova alba.