ALAIN RESNAIS: QUANDO LA SUA GUERRA NON ERA ANCORA FINITA – 3° E ULTIMA PARTE
Originariamente pubblicato il 29 aprile 2006
QUEL CHE RESTA DEL CREATO
Era francamente impensabile che Alain Resnais, dopo una lavorazione da brivido durata sei anni (di sacrificio e di meritata soddisfazione), potesse continuare a produrre simili articoli, non tanto per livello qualitativo quanto per la sceltaargomentativa da percorrere. Tre anni dopo Muriel, ou le temps d’un retour(1966) il regista firma l’ennesima opera sulla guerra, tema che diventerà caposaldo della sua opera omnia (salvo rare eccezioni). Il film in questione è La guerre est finie (La guerra è finita), prima collaborazione con i dialoghi di Jorge Semprun e ambientato al tempo stesso delle riprese, l’opera focalizza l’occhio sulle vicende di Diego, militante spagnolo stabilitosi a Parigi che si confronta con il clima dei giovani militanti di sinistra. In quello che è sicuramente il risultato più lineare nel percorso di Resnais appare anche una grande attrice apparsa in molti film di Bergman, Ingrid Thulin. Dopo Loin du Vietnam (Lontano dal Vietnam, 1967) una produzione a più mani in collaborazione con Godard, Lelouch, Klein e Ivens di cui Resnais filma un episodio ironico e contradditoriosul pensiero intelletuale di sinistra nei confronti della guerra in Vietnam, l’autore francese si concentra, nel 1968, sul film che ritorna, nostalgico, sui vecchi temi dell’ormai classica trilogia del tempo: Je t’aime, je t’aime riflette infattisulle possibilità offerte all’uomo dal sobbalzo creatosi a cavallo del passato con il presente. Interpretato da Claude Ridder (simbolico centro di una sequenza memorabile – quella della resurrezione spirituale-fisica dal mare – ripetuta ciclicamente nel film) e Anouk Ferjac, il film non ebbe grande successo di pubblico, anche perché come tutti i film di Resnais tenta di fare luce su l’inconnou, sull’inspiegabile. Dio viene visto come l’elemento che crea un sub- clone (umano) per far si che esso aderisca incessantemente al piano (materialistico) divino e l’uomo come la somiglianza che cerca conforto nella propria creazione.
Dopo anni Resnais torna sulla scena filmica, e in seguito a una breve parentesi aperta nel 1973, con un breve episodio del film L’An 01 sulla rottura degli schemi tradizionali (lavoro), il regista francese mischia l’eleganza scenica diJean-Paul Belmondo a quella tecnica dei dialoghi già collaudati di Semprun. Il risultato è Stavinsky (1974), edito in Italia come Stavinsky, il grandetruffatore, lungometraggio basato su scelte cronologiche apparentemente semplici che sconfinano però in flash-back e addirittura in flash-forward, evocanti il passaggio in Francia di Trotski, teorico russo di formazione marxista. L’interprete di A bout de souffle lega perfettamente con la spontanea plasticità dell’immagine, e si sposta nel corso del tempo (filmico, alterabile) seguendo tracce, ripercorrendo itinerari.
Nel 1977 è la volta di Providence, uno dei tetti più alti toccati nella totalità della produzione Resnaisiana. Il titolo è strettamente legato all’omonima città americana, luogo di nascità di Lovecraft, autore di capolavori e indiretto ispiratore del regista, che per mezzo di uno scrittore ripercorre le chiavi filologiche del pensiero autoriale stesso, partendo dalla famiglia per sbucare in un’amplia riflessione creativa.
Tre anni più tardi, a cavallo del 1980, viene alla luce Mon oncle d’Amerique, saggia e cruda (se pur indiretta, in pieno stile Resnais) analisi della psiche umana a contatto con personali esigenze di sopravvivenza, non determinate da insindacabili condizioni esterne, quanto dalla voglia, dalla necessità di stabilirsi in un costante e sempre migliore clima di piacere soggettivo, quasi ad ogni costo (ritorna il motivo trainante della – difettosa ed inspiegabile – natura umana) . Il nostro cervello, sembra essere in agguato per nutrirsi delle migliori prede che capitano a tiro: la trama, che vede come figure di spicco Pierre Arditi, Nicole Garcia, Roger Pierre e Gerard Depardieu, è basata sull’abbandono delle rispettive famiglie di due amanti, che finiranno per disgiungersi (come vuole l’insoddisfatto essere umano).
Mon oncle d’amerique rappresenta la via del successo per poter girare i due film successivi, entrambi comprensivi di un cast stellare e destinati (in differita di anni) a diventare capolavori per pubblico e critica. Stiamo parlando di La vie est un roman (il più famoso dei due) e L’amour à mort, che può comunque vantare grandi nomi all’interno del gruzzolo interpretante.
Uscito nel 1983, La vie est un roman affianca al nome di Pierra Arditi quelli di due intramontabili figure cinematografiche, Vittorio Gassman e una giovanissimaFanny Ardant.
In stile film multiplo, vengono esplicate vicende nelle quali sottostanno temi profondi come il rispetto e l’educazione dell’immaginario fanciullesco, profilate con l’abituale ironia del francese.
Il castello del conte Forbek (dentro al quale egli propone ai suoi ospiti un viaggio depurativo promettente la grazia eterna affrontando un ricostituente lavaggio fisico-psichico) viene visualizzato in due diverse epoche, nel 1919 e nel 1982. L’amore della Ardant riuscirà nell’impresa vera e propria, quella di cambiare il castello in un luogo di apprendimento, vero fulcro del senso dell’opera, introducente il tema del canto e del ballo, attuato poi altri lungometraggi.
L’amour à mort del 1984, invece, rievoca le tematiche contradditorie del primoResnais, scomponendo i collegamenti tra vita e morte, amore e odio, piacere e dolore. Si serve di due coppie per porre domande esistenziali sulla reale efficacia di un amore duraturo e intenso, quasi imprigionante, a discapito di relazioni brevi e senza compromessi (e viceversa, le due coppie fanno si che questo gioco sia intercambiabile). Le musiche in questo film sono lontane, scostate ma sempre presenti, e lo stesso Resnais asserirà che “ciò che nonviene detto dall’immagine o i dai dialoghi è introdotto dal sottofondo musicale”.
Due anni dopo l’autore si propone con Mèlo, logorante confronto esistenziale di due realtà opposte. Il regista (e l’uomo) si interroga sulla prerogative del libero arbitrio e sull’interazione di esso quando si affiancano differenti situazioni, più o meno favorevoli. Con questo lavoro Resnais omaggia il teatro e le sue creature, dall’artificiosità agli attori, fondamentali, stessi.
I want to go home, del 1989, delinea un netto confine tra Francia e USA, associando ai due stati due universi confinanti. Distrutto dalla critica, l’opera che vede Adolph Green nei panni di Joey Wellman (Wellman “l’uomo – l’americano – bravo”, leggendo tra le righe), comico disegnatore di vignette approdante in Francia con il vero scopo (il pretesto è una mostra) di ritrovare figlia e padre, che non si sono mai trovati con la cultura americana. Originale la scelta di inserire i personaggi delle vignette in determinati momenti del film, e di implementarli alla messainscena rendendoli comunicanti con il padre e la figlia.
Successivo a una breve parentesi documentaristica di nome Gershwin (52 minuti, 1992), On connait la chanson (in Italia Parole,parole,parole…), girato nel 1997, rispecchia un processo stilistico di cambiamento già iniziato da altri precedenti esempi. Ritornano Pierre Arditi e Sabine Azèma (con la Ardant e laSeyrig l’attrice più amata e incoraggiata sul set dal francese) in un paesaggio tipicamente popolare attualissimo. Nella Parigi costernata di canzoni si evidenziano i rapporti di un nucleo famigliare composto da una giovane intenta a finire la propria tesi di laurea (“les chevaliers-paysans de l’an mil au lac dePaladru”, realmente redatta in quel periodo da una studentessa), dalla sorella e dal marito di questa, nell’usuale cocktail di stati emotivi cosparsi di ironia e freschezza (a volte celata dal grigiore cittadino).
Infine, l’attuale ultimo lavoro del regista è un musical dal titolo Pas sour labouche del 2003, ignorato quasi del tutto dalla distribuzione nostrana. Lavoro esperto che dimostra come anche un grande maestro (in quanto tale) non abbia paura di sperimentare, tagliare il passato, cucire un nuovo presente destinato a un futuro (tutto torna, non erano forse questi i tre stadi del suo creato più meticoloso?) ricco di impreviste svolte (senza dubbio positive, a giudicare da una carriera così maestosamente interessante), brusche derapate o illogiche frenate, che serviranno solo ad alimentare la voglia immutabile di conoscere i nuovi orizzonti del nostro, ciclico come i suoi film, camaleontico come le sue creazioni, intramontabile come la sua arte.