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AMABILI RESTI

REGIA: Peter Jackson
SCENEGGIATURA: Peter Jackson, Frank Walsh, Philippa Boyens
CAST: Saoirse Ronan, Rachel Weisz, Mark Whalberg
ANNO: 2009

A CURA DI LUCA LOMBARDINI

IO SONO SUSIE SALMON

Gioca col fuoco senza scottarsi Peter Jackson, autore poliedrico, versatile e multiforme, nome di spicco all’interno di una ristretta cerchia di cineasti capaci di coinvolgere e incantare sempre e comunque, perché in grado di sovvertire le regole dei generi e attraversarli grazie ad una personale ed eclettica poetica. Amabili resti rappresenta la definitiva consacrazione, tassello di celluloide destinato a divenire imprescindibile all’interno di una filmografia germogliata nella schizofrenia splatter di Bad Taste e definitivamente fiorita nel popolare e pressoché unanime consenso ottenuto dal trittico Lords of the Rings. Favola nera, Lovely Bones si presenta come sorella gemella del matricida Creature del Cielo, oltre che rivisitazione drammatica della fiaba di Cappuccetto Rosso, con tanto di giovani vittime imprigionate nella tana del lupo divenuto seriale. Nel raccontarla Peter Jackson vince la sua personalissima scommessa, trasformando in punto di forza emotivo e strutturale ciò che le premesse lasciavano presagire come maggior elemento di attrattiva e, al tempo stesso, sconsigliabile fattore arrischiante. La defunta voce narrante di Saoirse Ronan frantuma in partenza qualsiasi scheletro narrativo riconducibile al convenzionale modus operandi del thriller e limitrofi, illustrando fatti e colpevoli al fine di giocare a carte scoperte con lo spettatore, raggiungendo, fin dall’incipit, un livello di straniamento addirittura superiore a quello trasmesso dal William Holden di Viale del Tramonto; l’asticella della sperimentazione si alza oltre il livello di guardia, senza che la spia d’allarme inizi a lampeggiare o l’equilibrio dell’opera palesi passaggi a vuoto. Un vero e proprio prodigio in fotogrammi, merito di Jackson e delle innumerevoli chiavi di lettura nascoste tra le righe della sua ultima fatica. Amabili Resti è Io Sono Helen Driscoll di Richard Matheson rivisto in chiave adolescenziale (strada, quest’ultima, intrapresa anche da David Koepp per la trasposizione cinematografica del romanzo firmato dall’autore di Io Sono Leggenda) e ambientato all’inizio degli anni ’70. Tra le villette a schiera e le station wagon parcheggiate nel vialetto del curato prato di casa si gettano la basi di una nuova cultura provinciale, nata dalle ceneri della sorpassata filosofia hippie (i figli dei fiori della prima ora si convertono ai canoni borghesi: lavoro sicuro, un buon libro al posto del sesso, il cane da portare a passeggio). Un quadretto forse troppo rassicurante, guscio ideale all’interno del quale celare pulsioni omicide di una paese che si appresta a scoprire, nel suo vicino di casa, un probabile seguace di Charles Manson. La prospettiva del sospetto viene ribaltata: più inoffensivo e comune si propone all’aspetto, maggiore è il pericolo rappresentato dall’individuo in questione. Una scia di sangue attraversa l’America imbambolata e attonita, pluriomicidi destinati a restare impuniti perché agevolati dall’impreparazione ai metodi criminologici delle forze dell’ordine: Peter Jackson rende onirico ciò che Zodiac di David Fincher aveva freddamente immortalato con il piglio del cronista di nera, focalizzando l’attenzione, quasi fosse un Haneke convertito al gradimento del grande pubblico, sulle conseguenze dell’evento e non sull’atto stesso, architettato, suggerito, realizzato e, soltanto fatalmente, punito. Lovely Bones rappresenta una lezione di classe e sensibilità registica di raro fascino visivo ed efficacia empatica, durante la quale non c’è spazio e tempo per dettagliate efferatezze. Più che sul corpo di Susie, l’omicida si accanisce trasversalmente sull’interrotta parabola di vita della giovane Salmon e sull’equilibrio delle esistenze spezzate in seguito alla sua scomparsa. Un appuntamento a lungo desiderato che mai si verificherà, le dinamiche domestiche sbriciolate sotto il peso di un dolore insopportabile, il fardello di una trappola sovrannaturale che dura il tempo dell’elaborazione del lutto; sostanza e profondità emotiva che trovano il loro complementare cinematografico nella dimensione grafica di un’anticamera celestiale esattamente a metà tra De Chirico e Dalì, palco non ancora paradisiaco dal quale risulta ancor più efficace e suggestivo osservare quanto sta accadendo in terra: l’orco, ormai smascherato e ad un passo dalla fuga, subisce il furtivo ingresso nella tana degli orrori nascosti da parte della sorella di una delle sue vittime. Un orologio a muro arbitra i tempi del duello tra carnefice e potenziale preda. Sguardi, respiri, sospiri soffocati, scricchiolii e piani d’ascolto si susseguano in un manuale della suspense che proietta il cuore al piano delle tonsille. L’ultimo Peter Jackson non è solo Billy Wilder, ma addirittura Alfred Hitchcock. Chiedere di più sarebbe sinceramente troppo.

(23/02/10)

 

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