AMERICAN GANGSTER

REGIA: Ridley Scott
SCENEGGIATURA: Steven Zaillan
CAST: Russell Crowe, Danzel Washington, Cuba Gooding jr.
ANNO: 2007


A cura di Luca Lombardini

MINESTRA RISCALDATA

Tempo, pazienza e ancora tempo. Per capire veramente American Gangster, e non cadere nel suo sibillino tranello interpretativo c’è bisogno di tempo. Lo stesso di cui si necessita per perdere quel carrozzone chiassoso e dall’eco rimbombante, irresistibile approdo per molti critici di casa nostra e non fin dalla sua uscita nelle sale. Presuntuoso fin dal titolo (quasi una summa della tradizione criminale americana su celluloide), l’ultimo Ridley Scott è una minuziosa tesi di laurea incentrata sul classico tema del rise & fall: preciso e puntuale, viaggia spedito e senza intoppi sui binari tracciati dalla consuetudine storica e dagli epigoni moderni, portando a termine il suo lungo viaggio con il passo sicuro e arrogante di chi è convinto di essere sempre a tempo. Un tragitto durante il quale il cineasta sembra voler riproporre una sorta de I Duellanti in salsa metropolitana, sostituendo le spade con le pistole, e condendo il tutto con omaggi “morali” (l’ascesa criminal capitalistica di Piccolo Cesare), alternati ad atti di vera e propria riverenza stilistica (Il Padrino, Scarface, Gli Intoccabili). Una cornice elementare e al tempo stesso ricercata (almeno nell’accezione manieristica del termine), capace di apparire a prima vista sontuosa e superficialmente inattaccabile, finalizzata ad accogliere il telefonato uno contro uno tra il poliziotto onesto che proprio stinco di santo non è, e il malavitoso realmente esistito obbligato a cantare e portare la croce: indossando prima i panni dell’antagonista e cercando poi di risultare al pubblico accattivante quel tanto che basta, affinché il suo ruolo da presunto antieroe possa toccare le giuste corde emozionali di chi sta dall’altra parte dello schermo. Lo sceneggiatore Steven Zaillan romanza la parabola criminale di FranksuperflyLucas tenendo bene a mente la rilettura depalmiana di Scarface, peccato che il copione termini il suo peregrinare di commissione in commissione nelle mani di un regista incapace di convincere dai tempi di Black Rain, un autore o presunto tale ormai alla frutta, che non ha mai avuto e mai avrà, nelle sue corde visionarie, un unghia dei barocchismi isterici del buon Brian. Tecnicamente e narrativamente parlando, infatti, Scott non va oltre un malizioso copia e incolla dei prototipi ai quali si ispira, e affida il grosso del lavoro all’abilità di Scalia in cabina di montaggio, al quale va il merito di rendere quanto meno godibile il tutto ritmando la vicenda con fare “analogico”, allontanando le separate esistenze dei due protagonisti in partenza, per farle confluire progressivamente fino all’inevitabile e deflagrante faccia a faccia conclusivo. Uno specchietto per le allodole regolato al millesimo, tanto imponente da risultare ben presto glaciale, artificioso e privo dell’anima sanguigna che un tempo, neanche troppo lontano, animò i modelli ai quali American Gangster vorrebbe allinearsi. La maestosità sfacciata dell’insieme porta con sé un amaro retrogusto, saporaccio sgradevole che ti mette in guardia da un rischio concreto: gridare al capolavoro che non c’è. Più che un bel colpo di cinema messo a segno, quello di Scott è un vero e proprio buco nell’acqua mascherato con successo dagli esiti incoraggianti di quanto registrato dai botteghini. American Gangster è una pellicola eticamente sbagliata in partenza, un plot tipicamente americano (all’interno del quale riecheggiano persino gli echi lontani del Vietnam) inspiegabilmente assegnato ad un regista inglese, che giocoforza si adatta e cerca di girare secondo comandamenti culturalmente anni luce distanti da lui. La Harlem degli anni 70’ non può e non deve essere suggerita facendo unicamente ricorso al tema musicale di Across 110th street (tra l’altro l’episodio più “pallido” della grande stagione blaxploitation), mentre due personaggi come quelli interpretati da Washington e Crowe non meritano di doversi sobbarcare l’intero peso di un film. Spike Lee, che proprio su commissione ha realizzato Inside man, uno dei suoi lavori meglio riusciti, sarebbe stato l’unico in grado di comprendere appieno l’importanza del sottotesto colored. Michael Mann, che sull’interazione conflittuale tra il bianco Tom Cruise e il nero Jamie Foxx, ha costruito, per certi versi, la sua pellicola definitiva, ne avrebbe tirato fuori un film semplicemente indimenticabile.

 

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(30/01/08)

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