ANIMAL KINGDOM di David Michod
REGIA: David Michod
CAST: James Frenchville, Guy Pierce, Ben Mendelson
SCENEGGIATURA: David Michod
ANNO: 2010
ROMA 2010: EDWARD BUNKER E CHARLES DARWIN
La grande donna che il vecchio adagio vuole alle spalle del grande uomo tesse le fila della banda. Organizzazione a delinquere dalla gestione familiare: colazioni, barbecue o narcolettiche partite alla playstation che siano. Guardi Animal Kingdom e pensi ad una versione sleep de Il Clan dei Barker, una galleria d’arte criminale all’interno della quale vengono esposti echi sparsi dei classici: Scorsese, Ferrara, James Gray e Cassavetes figlio. Più che scrivere e dirigereDavid Michod affresca, istantanea minimalista che gela il sangue nelle vene per distaccata grazia. Animal Kingdom è la donna di cui ti innamori perdutamente pur sapendola irraggiungibile, bellezza spoglia ma indimenticabile: non la puoi avere ma persisti nell’ammirarla, impunito, con lo sguardo nascosto che è lo stesso del suo regista.
La macchina da presa si muove in sordina, biscia silenziosa e dalla presenza pressoché assente una volta giunta alla soglia di un microcosmo dalle regole consolidate, vincolato negli ingressi dai suoi rigidi codici di parentela e mosso con fascino battone dalla vissuta Kacji Weaver: ape regina, matrona ignorante allo scrupolo perché forte del/nel suo edipico regno. Quello di Animal Kingdom è un universo malavitosamente perfetto, guasto alla radice e per questo destinato ad implodere sulle macerie della sua (dis)illusa certezza di sopravvivenza appena il tempo di un passo falso. Una zona (im)moralmente franca, dove l’educazione canagliesca di Edward Bunker incontra come per miracolo la teorica evoluzione darwiniana; geno e fenotipo criminale accompagnano le nuove leve verso il precoce capolinea della selezione naturale, lungo le strade di una Melbourne periferica e manniana, dove Alpha Dog sposa le ritmiche di John Hillcoat e le rapine, così come le sparatorie, atterriscono proprio perché fuori campo; effetto occultato di una causa che ne è il contro altare cinematografico, in quanto visibile all’occhio di chi guarda. Non un semplice thriller, bensì un trattato di vita vera, consumato sul lato selvaggio del mondo e documentato con un stile registico in grado di far tornare in mente il Gus Van Sant degli esordi seduto a conversare nell’angolo di un’amena tavola calda con il Darren Aronofsky d’oggi.
Michod non concede nulla allo spettacolo tout court della violenza, perchè Animal Kingdom non è e mai sarà un altro gangster movie all’americana. Il suo obiettivo è un altro, certamente più ambizioso ma pienamente riuscito: tratteggiare i confini di uno straziante melò familiare, oasi di presunta salvezza dalle piaghe di una società che ha come tutori della legge poliziotti capaci di uccidere a sangue freddo la preda che da troppo tempo li svilisce in appostamenti automobilistici e genitori, o presunti tali, che con la loro assente attenzione consegnano la figlia, appena adolescente, nelle fauci del mostro. Nonna Smurf e lo zio Pope altro non sono che prodotti deviati di «questo fottuto e pazzo mondo», onesti nel perseverare il loro ideale d’esistenza fino alle estreme conseguenze, rispettivamente solitudine e morte. Sotto la loro spirituale guida cresce e matura l’apatico J, ultimo arrivato della nidiata troppo solo per comprendere altro che non sia l’educazione impartitagli. A poco serve il molle contributo di un Guy Pierce in stile commissario Gordon: solo contro tutti, angelo senz’ali precipitato in una terra ostile, che tanto bisogno avrebbe di un eroe mascherato capace di aiutarlo nel fare piazza pulita dalla feccia, resistente come la gramigna, erba cattiva coltivata nel giardino di casa, talmente resistente da non morire mai. David Michod esordisce con la spavalderia di chi sa di avere qualcosa d’interessante da dire e la sana presunzione del professorino fresco di cattedra capace di azzittire tutti tramite una personalità già matura, che ruba il cuore e consuma le scorte di aggettivi, quelli rari, che tieni buoni per le grandi occasioni. Animal Kingdom è una di queste, dopo averlo visto l’unica cosa che ha senso ascoltare è un “andate in pace”.