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APOCALYPTO
REGIA: Mel Gibson
SCENEGGIATURA: Mel Gibson
CAST: Rudy Youngblood, Dalia Hernandez, Jonathan Brewer
ANNO: 2006
A cura di Luca Lombardini
CANNIBAL KOLOSSAL
Ad attendere il regista di Braveheart
e The Passion al varco erano in
molti. E non per motivi prevalentemente cinematografici. L’eco dei suoi
ululati antisemiti infatti, tardava ancora a spegnersi (come del resto le voci
sulla sua naturale inclinazione ad alzare un po’ troppo spesso il
gomito), mentre le polemiche sulla mancata censura italiana, avevano
contribuito ad alimentare un sentimento di ostilità misto a fremente attesa,
quasi per nulla interessato al film in sé. Nell’ultimo weekend infatti,
serpeggiava una sorta di clima simile alla caccia alle streghe: c’era
voglia di dare addosso all’ultimo ragazzaccio di Hollywood, l’unico
rimasto “in trincea” dopo che persino il burbero e rissoso Russell Crowe aveva deciso di invertire
improvvisamente la rotta, passando dai telefoni scagliati contro i muri degli
alberghi ai pregiati vini francesi.
Una serie di chiacchiere, pettegolezzi e anticipazioni più o meno credibili,
che hanno contribuito a gonfiare una pellicola la quale, stando a questo
vociare incontrollato, sembrava promettere un’esperienza filmica
superiore alla media: aspettative che Apocalypto
ha saputo confermare solo in parte. L’ultima fatica di Mel Gibson è una storia
d’avventura chiara e semplice, diretta con fare manicheo e nobilitata
registicamente da uno stile semidocumentarista che si regge sulla tradizionale
ed esplicita dicotomia tra buono e cattivo (Zampa di Giaguaro: nudo, puro e in
sincronia con la natura contro il suo avversario, iracondo e assetato di sangue
che si fa vanto di ornamenti ricavati da ossa umane). Apocalypto si disimpegna agilmente tra citazione cinematografiche
“basse” (la vivisezione del tapiro proposta in apertura ricorda Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato), “medie” (Predator) e “alte” (Apocalypse Now), mettendo in mostra la
muscolatura dei nativi americani scritturati come attori beandosi nella natura
incontaminata all’interno della quale è ambientato. La confezione è
quella tipica è un po’ furbetta del fumettone americano: tecnicamente ordinata,
ritmata il giusto, capace di risvegliare il bambino che c’è
nell’animo di ogni spettatore grazie alla cesoia emozionale che spezza in
due la struttura circolare del film, troncato a metà da una prima parte ludica
(lo scherzo dei testicoli, il peperoncino ingravidante, i lamenti della
suocera), che fa da contro altare ad un secondo tempo
“survaivalistico” e sanguinolento. Sul fatto che Gibson sappia posizionare la macchina da
presa nel modo più consono possibile non ci sono dubbi, e in questo caso si
dimostra non solo abile nel gettarsi con la camera a mano nella mischia dei
corpo a corpo, ma è anche particolarmente attento alle sfumature scenografiche
e costumistiche, alle quali dà ampia visibilità nella sequenza del sacrificio
umano, dove rinuncia quasi del tutto ai campi larghi (e quindi alla facile via
di fuga del digitale) per concentrarsi sui particolari estetici degli indigeni.
Fin qui i pregi. Ma Apocalypto è
un’operazione visibilmente zoppicante, che si trascina stancamente per
tre quarti di secondo tempo tra inseguimenti e agguati abbastanza scontati,
rivelando una palese approssimazione di scrittura, che concilia lo sbadiglio
proprio quando dovrebbe tenere incollati alla sedia. L’intera vicenda
manca di qual si voglia profondità, è priva della più superficiale delle
ricostruzioni storiche, e si riduce troppo presto (e troppo a lungo) ad una
banale caccia all’uomo. Viste le premesse e i toni polemici degli storici
e antropologi americani che hanno accompagnato l’uscita in sala del film,
non ci si aspettava certo un dettagliato referto storico sul declino della
civiltà Maya ma, allo stesso tempo, mostrare un popolo in grado di disegnare un
ciclo annuale di 365 giorni e di coniare sistemi di scrittura e concetti
algebrici, come una masnada di primitivi paranoici e assetati di sangue, appare
quanto meno superficiale. Restano poi alcuni momenti incomprensibili come il
parto acquatico della consorte di Zampa di Giaguaro. Possibile che un regista
ossessionato da temi biblici come quelli della vita e della morte, incline a
soffermarsi su particolari dolorosi, risolva la nascita di una nuova vita con
un’ inquadratura di un nano secondo?
Resta comunque l’involucro ammiccante in grado di portar via
l’occhio, ma che non basta certo a nobilitare fino in fondo il film, a
meno che non lo si consideri come pellicola adrenalinica e di pura evasione. A Gibson è stato rimproverato
l’approccio alla materia, ritenuto dagli esperti troppo action e poco
veritiero. Noi che docenti di storia pre-colombiana non siamo, vogliamo limitarci
al lato cinematografico, con il quale però, sembrano combaciare le
dichiarazioni dell’americanista Antonio
Aimi:<< Gibson fa parlare i
protagonisti in lingua Maya Yucateca, usando la lingua moderna al posto di
quella antica>>. Un po’ come se
Zack Snyder (che sta ultimando la
trasposizione cinematografica di 300,
graphic novel di Frank Miller sulla
battaglia delle Termopili) facesse uscire il suo film con i dialoghi in greco,
usando quello moderno al posto dell’antico.
Capito l’errore?
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