APPUNTI
PER UN’ORESTIADE AFRICANA
REGIA: Pier Paolo Pasolini
SCENEGGIATURA: Pier Paolo Pasolini
ANNO: 1970
A cura di Sandro Lozzi
REMINISCENZE:
FESTIVAL DEL CINEMA RITROVATO 05’
È il produttore e regista Gian Vittorio Baldi (possessore del negativo in 16mm
da cui è stata tratta la copia in 35mm) a presentare uno degli appuntamenti più
significativi di questo festival.
Il restauro dell'Orestiade di Pasolini,
affidato al laboratorio L’Immagine Ritrovata di Bologna e che ha fatto la
sua prima apparizione pubblica al Festival di Cannes proprio quest'anno, è un'operazione importantissima per la cultura
italiana; un'opera da cui non si può prescindere, e che inevitabilmente aveva subìto, all'epoca della sua realizzazione, l'idiota
trattamento della censura della Rai, che prima aveva
commissionato il film e poi ne evitò accuratamente la trasmissione.
La Cineteca di Bologna è depositaria da più di un anno del Fondo Pier Paolo Pasolini, trasferito a Bologna per volontà di Laura Betti.
La manifestazione presenterà anche un Dossier Pasolini,
curato da Loris Lepri e Roberto Chiesi del Centro
Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini della
Cineteca di Bologna, nel quale, oltre ad interviste e testimonianze di amici e
collaboratori, viene ricostruito Alibech,
l’episodio del Decameron che Pasolini ha girato e doppiato, ma poi tagliato per esigenze
produttivodistributive.
"Era quindi una sorta di documentario, di saggio. Non lo potevo concepire
che in questa forma. Ma allora a chi lo avrei destinato, se non alle poche élites politicizzate che si interessano
ai problemi del Terzo Mondo? Per estendere questo pubblico prevedibile, avrei
dovuto fare un film 'giornalistico'. È difficile
trattare un argomento del genere in tutta tranquillità, sia sul piano
ideologico che politico. Penso che ai marxisti ufficiali certe verità non sarebbero state del tutto gradite. Anche
i contestatori a loro volta vi avrebbero trovato materia di controversia"
(P.P. Pasolini).
Ecco allora l’idea geniale che rende questa pellicola un esperimento
unico nella storia del cinema, un documento dalla portata impressionante se si
considerano i mezzi con cui è stato prodotto. L’idea, in un progetto
meta-filmico (la pellicola inizia addirittura con Pasolini
che si riprende specchiato sulla vetrina di un negozio in una città africana) che
nessun altro autore ha mai avvicinato, è quella di costruire il film sulla sua
costruzione, di nascondere la messinscena dietro la sua preparazione, di far
credere – in altre parole – allo spettatore di stare guardando
(come da titolo) degli appunti per un film, per fargli rendere conto solo a
visione terminata di aver visto invece il film vero e proprio. E che film!
Il regista finge di fare prove, sopralluoghi, casting, e sfrutta l’audio
per nascondervi dietro la messinscena: dice “questo potrebbe essere
Agamennone” e invece quello è Agamennone, si chiede cosa potrebbe
simbolizzare le Furie, e invece al tempo stesso le Furie sono sullo schermo,
rappresentate dagli alberi in conflitto col mondo moderno. Non è un caso che sia Pasolini stesso a manovrare
l’Arriflex 16mm a spalla, perché con la
macchina da presa Pasolini scrive, con tutta la sua
abilità di letterato; perché le parole da cogliere non sono quelle pronunciate,
ma quelle mostrate; perché la sua versione dell’opera di Eschilo è ideata
e realizzata per il cinema, e, di conseguenza, impostata attraverso un discorso
sul cinema. Appunti per un’Orestiade africana è
cinema allo stato puro, embrionale, un cinema che ormai non si vede più, un
cinema che fa teoria cinematografica.
La poetica drammaticità del testo filmico sopraggiunge quasi con naturalezza,
mentre Pasolini sembra quasi un novellino della
macchina da presa che si esercita nella costruzione dell’immagine.
Particolarmente efficaci ai fini della poetica dell’opera sono le
sequenze in cui il regista discute dei temi dell’opera con un gruppo di studenti africani residenti a Roma; in quegli interventi,
dei diretti interessati, si coglie il dramma intenso della questione, si
comprende che l’utopia suggerita da Pasolini
deve fare i conti con la sua inattualità. Le onde poetiche di Pasolini si infrangono contro le
parole dei ragazzi africani, l’intuizione drammatica si scontra con le
vicissitudini della vita e della situazione reali. I ragazzi africani, papabili
novelli Oreste, rappresentano d’altra parte il tribunale delle Eumenidi, chiamato ad esprimersi (di
nuovo ora, alle soglie del 2000) sulla situazione di un popolo.
Tutto si richiama all’analogia pasoliniana,
anche le musiche, che miscelando sonorità tipicamente “bianche” ad
altre tipicamente “nere”, sono lo specchio dell’Africa
occidentalizzata, quell’Africa occidentalizzata
che Pasolini inquadra sin dall’inizio, sin da
quella vetrina su cui si specchia con la mdp, in
veste, ad un tempo, di Eschilo e di Oreste. E,
naturalmente, di autore, autore di quest’opera.
«Una nuova nazione è nata, i suoi problemi non si risolvono, si vivono... Il
futuro di un popolo è nella sua ansia di futuro, e la sua ansia è una grande
pazienza». È il commento che chiude il film, che però non ha conclusione;
l’Orestiade africana è in sospeso, è sospesa e
lenta come le immagini finali, come la vita dei contadini di un’Africa
che forse, prima o poi, sarà finalmente libera.
(19/09/05)