L’ARCO

REGIA: Kim Ki-duk
CAST: Han Yeo-reum, Jeon Sung-hwan, Seo Ji-seok
SCENEGGIATURA: Kim Ki-Duk
ANNO: 2005


A cura di Davide Ticchi

PANTA REI

Ogni cosa scorre negli eterni moti universali, che si riassumono intimi, discreti, languidi e sensuali nell’universo appartenente a Kim Ki-Duk, ormai (s)oggetto di culto in occidente, e riconosciuto profeta della cultura filosofico-religiosa in oriente. L’arco come la mazza da golf numero 3, la samaritana, l’isola e le stagioni, assurge a valore simbolico onni-presente e potente, consentendo la dipartenza di lì a un ciclo esistenziale supposto, costruito in base alle leggi cosmiche della filosofia postuma, ridotte a sostanziale sensibilità umanistica, capacità percettiva, emozione e candore attraverso il cinema. Qui come di rado prima d’ora, risulta difficoltosa la totale comprensione degli eventi simbolici facenti parte del film e più in generale del cinema di Kim Ki-duk, che a sua volta con quello coreano apre un cerchio figurato tuttora irrisolto, ma inevitabilmente coerente a sé stesso. Mentre in Ferro3 e La Samaritana a fare da background c’era la società che noi conosciamo, o a cui comunque il cinema ci ha abituati, quella in cui viviamo e da cui il cinema stesso è dipeso, ne L’arco, come ne L’isola e in Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, lo scenario per cui la storia si risolve è completamente nullo, o anche annullatore di sé, privante di agenti pregiudicanti, corruttibili, riguardanti la sola realtà che intendiamo come tale, tecnologica, meccanica, stuprata sul nascere. Non bastavano filosofia e riflessione per riuscire ad evadere dal male o dall’amore stesso, impuro, manipolato da modelli formativi che costringono ad essere imitati, cui solo spiritualmente si può passare inosservati, per mezzo dell’invisibilità. A fare da sfondo a questa storia invece ci sono le tonalità del cielo, forse addirittura purificate dalla pioggia che talvolta le opacizza, corrispondenti agli stati d’animo, ai comportamenti ed organi sensitivi dell’uomo, primi veri enti a risentire dei condizionamenti atmosferici, legati alla luce e alla percezione di questa. Esclusi gli archetipi scenografici della vita comunitaria, ciò che rimane è l’estensione del vuoto, della superficie marina, solcata da navi immobili, e linee di orizzonte. Proprio su una di queste imbarcazioni vive un vecchio uomo che si fa pagare da chi viene a pescare sulla sua proprietà, insieme a una giovane ragazza che appena avrà compiuto diciassette anni, verrà sposata dal suo unico anziano convivente. Così l’ordine esistenziale dei due, scandito dalle perpetue sonorità dell’arco a corde, potrà essere ridiscusso soltanto dall’intervento di un terzo essere umano, più precisamente un giovane ragazzo che sembra essersi innamorato della fanciulla sulla barca.
Un amore quasi impercettibile, ma profondo e naturale, come quello provato dai due protagonisti di Ferro3, e uno scenario che sembra ripercorrere gli effluvi acquatici de L’isola, fotografato tra l’altro similmente, L’arco appare allo stato attuale delle cose il film filosoficamente più elevato del regista coreano. Questo è riscontrabile dal fatto che il grado simbolico del film, oltre a rivelarsi praticamente inestricabile, crea momenti di lirismo catartico che di rado il cinema aveva mai conosciuto in queste forme, così sublimi e alte. Stilisticamente il cinema di Ki-duk attraverso L’arco acquisisce una maturità e personalità forse oggi senza eguali, traendo da essa i significati sommi per proseguire un discorso filologico appropriato ai racconti per cui il regista si esprime. Proprio le storie, le piccole sensazioni che un uomo può apprendere nell’arco di una giornata, o del compimento del proprio diciassettesimo compleanno come nel film succede, il regista coreano le traduce in immagini, eterne ed eteree, che richiedono partecipazione a livello sensoriale, emozionale ed esistenziale. Ogni cosa non si viene a conoscere per quello che è oggettivamente, ma per quello che noi siamo, e per come interpretiamo tali entità organiche proposteci, perciò si assiste a cinema addirittura ultimo, perfetto, immutabile nel tempo, ma in continuo rinnovamento di sé, proprio come la natura e le acque, sempre nuove ma eternamente identiche.
Ogni aspetto de L’arco simboleggia qualcosa d’altro, e a fine proiezione le doxa sono tante, come si legge la spiritualità dei due protagonisti, espressa dal fatto che durante il film questi non proferiscono mai parola… Si sa che la verità assoluta non esiste, Kim Ki-duk ce ne dà ulteriore riprova, questa volta attraverso i suoni lontani di un arco che mette davvero i brividi.

(30/10/05)

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