ATTO DI FORZA
REGIA: Paul Verhoeven
CAST: Arnold Schwarzenegger,
Sharon Stone, Michael Ironside
SCENEGGIATURA: Gary Oldman,
Dan O’Bannon, Ronald Shusett
ANNO: 1990
A cura di Davide Ticchi
LA VIDEOSCIENZA
Innanzitutto il personaggio interpretato da Arnold Schwarzenegger è un evidente stereotipo di quello che vuole
essere l’uomo del futuro, di sussulto svegliatosi con mogliettina al
proprio fianco, quasi a voler saziare un innato e primordiale desiderio di
comprensione e affetto. Apparentemente il letto che li accoglie in un bianco
latteo di lenzuola fresche sembra non serbare alcun
tipo di innovazione contestuale, né materiale, e fungere altresì da eclatante
antitesi a tutto ciò che si vedrà successivamente. Perché alzandosi da quella
soffice culla atemporale, il nostro eroe sarà
letteralmente catapultato nella realtà tecnologica, mass-mediale, quella più
fredda e sporca che si possa immaginare in assoluto.
Egli si troverà di fronte a milioni di agenti esterni
e influenzanti, contro i quali nemmeno con l’imponente fisicità di cui è
padrone si potrà imporre, e in conseguenza di ciò sarà fagocitato da quei
fattori machiavellicamente psichici, che sembrano controllare con il loro
influsso il futuro e le aspettative del nuovo uomo. Doug
Quaid infatti, che di lavoro
fa l’operaio, dopo aver visto la pubblicità durante un viaggio in
metropolitana, si rivolge alla Recall, agenzia che si
occupa di “turismo mentale”, facendosi programmare in una vera e
propria vacanza su Marte, dove impersonerà un agente segreto.
Qui termina la realtà e comincia il sogno?
Qui comincia il sogno e termina la realtà?
O sogno e realtà sono la stessa cosa?
Quesiti a cui nemmeno Freud è
riuscito a dare una inoppugnabile spiegazione, e che il cinema cerca di dare
fin da quando nasce, classificandosi come arte illusoria dove sogno e realtà
procedono a strettissimo contatto. Così dallo stimolo mass-mediale, il nuovo
uomo si ritrova proiettato in un pianeta virtuale che è appunto quello di
Marte, dove si vede coinvolto in una vera storia di spionaggio con esiti
catastrofici. Ma il dubbio permane: sogno o realtà?
Atto di forza prova ad esporre una provata ma affascinante risposta, non lungi
da quella proposta in Videodrome, anche se in questo Cronenberg esplica il rapporto che
c’è tra la televisione e la nuova carne, mentre Verhoeven
propone una teoria che comprende il binomio futuro-nuovo
uomo. Si percepisce quindi una sorta di generalizzazione ed ampliamento dei
campi semantici analizzati e riprodotti, perché non esistono i luoghi comuni ma
solo uomini conosciuti e comuni che sono vorticosamente traslati ad una realtà
alternativa, che mette in risalto tutta la loro
anticonformità. A causa di ciò in Atto di forza non rintracciamo pianeti
mentali, ma pianeti materiali che contengono infiniti tipi di menti e corpi. Su
marte vi sono mutanti, telepati, chiromanti, puttane, nani e tutto il resto, una sorta di
rappresentanza multirazziale di un pianeta libero se non per il proprio
respiro, per le condizioni necessarie alla vita e ovviamente sottratte dai
malvagi. Sarà necessario l’intervento di Doug,
che affronterà un viaggio di maturazione fra taxi robotizzati, lamiere fumanti
e uomini deformi, ovvero tutto ciò che sarà la creazione del progresso e
dell’avanzamento tecnologico e metallurgico. Un utilizzo spropositato e
malato di elementi che oggi assomigliano ancora ad
opportunità, porterà Doug a dover salvare
l’umanità, senza mai capire se quello che sta facendo lo stia facendo
nella realtà o in un sogno. Ma non fa comunque
differenza.
Effetti speciali che valsero l’Oscar a Eric Brevig, scenografie che
assumono i colori più disparati perché virati da ciò di cui sono composte, e
riferimenti più o meno vaghi alle grandi teorie della fantascienza più scarsa
in assoluto, quella degli anni ’70 e ’80, fatta debita eccezione di
quella cerebrale di pochi registi americani. Michael Ironside si ispira proprio per
questo ruolo a quello avuto in Scanners nel 1982,
dove i telepati un po’ come qui, avrebbero
governato il mondo. Atto di forza è un film di grande effetto proprio perché
sempre supportato da significati non banali, che ancora oggi resistono per
quanto riguarda l’attualità della forma con cui vengono
espressi. Per questo come Videodrome fu definito da Andy Warhol l’Arancia
Meccanica degli anni ’80, Atto di forza per eguale lungimiranza e
futurismo, si potrebbe senza alcun rimorso definire come quella
appartenente agli anni ’90.
(12/06/05)