AURORA
REGIA: F.W Murnau
CAST: George O’Brien,
Janet Gaynor, Margaret Livingstone
SCENEGGIATURA: Carl Mayer
ANNO: 1927
A cura di Pierre
Hombrebueno
IL PIU’
BEL FILM D’AMORE DELLA STORIA DEL CINEMA
In fondo ce lo dicono chiaro e tondo le prime
didascalie del film:
Questa storia di un Uomo e di sua Moglie
appartiene a nessun luogo e ad ogni luogo... La potreste sentire ovunque e in
qualsiasi momento.
La semplicità dunque, la semplicità narrativa per raccontare quegli stereotipi
e quelle morali che successivamente più e più volte il
Cinema avrebbe assunto nella sua forma più banale e banalizzante. Non è il caso
di Murnau,
dicevamo, trasferitosi in America proprio per Aurora dopo la (grande) esperienza col tedesco espressionismo, che come è giusto che sia, ritorna anche qui, anche se in tono
meno sperimentale e meno (iper)munchiana.
Ma la cura cromatica, di luci e ombra che riecheggiano per tutto il prologo di Aurora è
estremamente opera e prova evidente di un autore che l’espressionismo, se
non l’ha creato (ed in effetti NON l’ha creato), l’ha però
sicuramente portato ad una delle sue massime fioriture.
Dicevamo di questa cura cromatica, così infissa, e tutto ciò è chiarificato
anche dal titolo stesso del film, Aurora, che suggerisce immediatamente lo
stimolo verso il calore, l’alba, il fuoco nascente della terra che poi
identificheremo più facilmente con l’ardore(e l’ardere) amorosa,
con la serenità, teatralmente opposta alle tentazioni di femme_fatale
e metropoli(s) giganti, condensate con quel nero (poco) sfumato che si delinea nella figura di Margaret Livingstone, la donna della città, guardacaso la più espressionista (e in un senso rifiutato,
romantica), tratteggiata con un trucco marcatissimo di contrasto tra pallido e
oscuro/buio, come quelle anti-eroine diavolesse. Una sorta di serpente dell’eden, potremmo
dire, o semplicemente una sorta di (dis)illusione,
come mostrano le sovrimpressioni sovrimposte (a puzzle) che tormentano il
protagonista, un burattino burattinato da un
materialismo immateriale (il contatto fisico pseudo-sessuale,
ma anche appunto le mere fantasmagoriche illusioni sovrimpressionistiche)
che supererà solamente con un tic (non sappiamo il come né il perché, ma questo
è il bello dell’amore banale ma irrazionale come si deve di Murnau), nel
momento in cui si accorgerà d’amare ancora sua moglie. Da qui in poi i
tratti espressionisti spariscono del tutto (o quasi), per volgersi verso
l’antitesi impressionista, comincia infatti quel
romanticismo destinato a diventare retrò, dove ogni punto del quadro (in)segna
la bellezza della vita e dell’amore come movente di tutto l’universo
(parallelo e non). Nemmeno la caotica città sembra più così ingannatrice e
tentatrice (come Monet
et Cezanne pretendono), ma anzi, diventa in fondo un grande luna-park, e i due sposi si (re)incarnano in due
bambini (dis)persi nell’euforia.
E’ meraviglioso, ancora una volta a sottolineare
la derivazione di Murnau,
come questo cambio radicale nell’animo dei personaggi sia delineato non
solo dalla contrapposizione dei sensi (e dei segni) attoriali,
ma anche e soprattutto (si) dalla evoluzione cromatica. Decenni prima delle
fotografie digitalizzate e digitalizzanti,
con un semplice uso di ombre e luci, Murnau delinea due modi di essere e di apparire: è questo
l’Aurora del titolo, una
rinascita di tonalità abbaglianti, di pulizia visiva, il (ri)acquisto
del paradiso perduto.
Il perché Aurora sia la più grande
opera cinematografica d’amore dell’intera Storia del Cinema lo
espone anche l’oggettiva tesi dell’importanza storica e della
risonanza artistica nei decenni, tanti decenni successivi. In fondo il Cinema
moderno è nato proprio da qui, e non è proprio un caso, se i kurtz ufficializzati del moderno, Truffaut et
i giovani turchi, siano proprio amanti folli del
maestro tedesco. Moderno sia a livello di messa in scena che a livello
ideologico, una sorta di vaga grande anticipazione del
pop, di esaltazione poetica così (r)evoluzionarie
considerando lo stretto cerchio d’elite in cui l’amore
hollywoodiano era considerato (e mostrato) in quegl’attimi
di sperimentazioni formali e visive. Più che sperimentare, Murnau espone l’esplicita
chiarezza (da cartolina come si potrebbe definire nel tono dispregiativo di oggi?) dell’amore retrò, della gioia incontemplata di un sogno che si avvera. In questo senso Murnau sbagliò
con le sue didascalie, mostrando il suo lato (nascosto?) di sognatore e
fabbricatore di sogni. La storia di Aurora non è sentita ovunque e in
qualsiasi momento, in quanto utopica, irreale ma nel contempo stesso così
magnificamente bello da immaginare. Per questo saremo grati per sempre a Murnau e ad Aurora, perché riempie e completa il
nostro immaginario con quella alter-vita
che solamente il Cinema poteva e può darci (la cinefilia
non è che un Nosferatu delle immagini in movimento).
E l’influenza, passando dal classico al post-moderno, è sbalorditiva, da
quella danza artigianale di coppia che rifaranno Jack e Rose nel Titanic, fino a
quel finale che mostra il sorgere del sole di un nuovo giorno, come a dirci che
anni prima di Rossella O’ Hara
e Via col vento, già Murnau, in
silenzio, sospirava: Domani è un altro
giorno.
O ancora il sottotitolo dell’opera, “A song of 2 humans (in love)”. Non ci sarà, ovviamente,
nessuna canzone (o forse il film stesso non è che una bellissima canzone, tantochè il ritornello (la gioia dei due innamorati) ci viene mostrato sia nel prologo con un flashback, sia per
tutto l’intermezzo, sia nel gran finale). Per quella ci penserà quasi un
secolo dopo Baz Luhrmann con
“Come what may”,
a song of two lovers. E anche se potrebbe sembrarlo, credeteci, non è affatto un
paradosso.
(02/02/06)