BAT
TLE
AVATAR
VS. IL MONDO DEI REPLICANTI
REGIA: James Cameron/Jonathan Mostow
CAST: Sam Worthington, Zoe Saldana/Bruce Willis, Radha Mitchell
SCENEGGIATURA: James Cameron/John Brancato, Michael Ferris
ANNO: 2010
A CURA DI LUCA LOMBARDINI
JAMES CAMERON E
JONATHAN MOSTOW: PROVE TECNICHE DI CONTINUITA'
Tante, troppe le analogie. Talmente numerose da rivelare un parto quasi
gemellare. Similitudini cinefile lampanti, impossibili da lasciarsi sfuggire,
perché capaci di legare a nodo doppio Avatar,
annunciato caso cinematografico dell’anno, e The Surrogates: piccolo episodio di fantascienza, praticamente un
fratello minore dall’aspetto ingannevole, comunque cresciuto inseguendo
i medesimi parametri semiotici del parente maggiore. Cineasti formalmente
discosti, accomunati all’improvviso da immagini e intuizioni distanti
solo superficialmente. Icone di celluloide che passano di mano in poetica,
assumendo forme nuove, ma non per questo incapaci di conservare, immutati,
humus originario e slancio natale. Da una parte James Cameron e il suo kolossal in performance capture, summa di
qualità e limiti a capo di una carriera in ogni caso unica e irripetibile:
bomba ad orologeria con in bella vista il marchio blockbuster, pronta ad
esplodere nei box office di tutto il globo. Dall’altra Il Mondo dei Replicanti, ennesimo
tassello di un curriculum registico ad un passo dal trasformarsi in percorso
autoriale, che proprio dal patrimonio lasciato in dote dal figlio illegittimo
di Steven Spielberg e George Lucas sembra muovere ulteriori
passi verso una più alta considerazione critica. Un gioco, quello relativo
alle “sospette” affinità tra i due, che ha inizio con Terminator 3 - Le Macchine Ribelli,
pellicola per merito della quale Jonathan
Mostow raccoglie la pesantissima eredità lasciatagli da James Cameron nel 1991, creatore,
autore e “replicante” stesso del precedente dittico iniziato nel
1984. Il progetto immediatamente successivo del regista di Breakdown – La Trappola prevede
la trasposizione sul grande schermo della graphic novel The Surrogates di Robert
Venditti, e per portarlo a termine si affida alla penna di John Brancato e Michael Ferris, squadra di sceneggiatori autrice dello script di Terminator Salvation, quarto e fin’ora
ultimo capitolo della faida tra macchine e resistenza interpretato, come
partner androide di Christian Bale,
proprio da Sam Worthington, scelto
a sua volta da James Cameron per
indossare i panni del marine Jake Sully. Registi e non solo. Anche scrittori
di storie e interpreti dell’immaginazione altrui. Avatar e The Surrogates: separati alla nascita,
tutto torna.
REMOTE CONTROL, LA BATTAGLIA DI
MOSTOW: "SUBSTITUTE ME FOR HIM/SUBSTITUTE MY COKE FOR GIN/SUBSTITUTE YOU
FOR MY MOM/AT LEAST I'LL GET MY WASHING DONE"
Cameron e Mostow mettono in scena paralleli emisferi futuribili
(ri)attualizzando il concetto di controllo remoto. Perno inamovibile del
ragionamento l’AVATAR, nome in codice della nuova fantascienza
dall’etimologia sanscrita di origine induista. Il Mondo dei Replicanti bypassa Robert Venditti sfruttandone a pieno la pessimistica accezione in
stile second life: The Surrogates è
un universo distopico, affollato com’è da copie pirata di
un’umanità interpersonale gioiosamente rimossa, vittima consapevole
dell’antinomia tra prigionia della sfera reale e la simulata libertà
del mondo esterno. Il paradosso virtuale è condotto all’estrema
conseguenza, dalla prigione domestica non si esce più, anzi, si fatica
persino ad alzarsi dalla propria cella-dormitorio per permettere al proprio
clone di ricaricarsi. Il semplice contatto con l’altro, che non sia
ologramma programmato e guidato a distanza, è tacciato dal termine rischio. Mostow palesa un incubo alla luce del
sole, inquietante proprio perché comunemente accettato e condiviso. Cameron, invece, si muove su binari
equidistanti ma ideologicamente opposti. La sua non è una tecnologia
moralmente violenta, bensì riconducibile al significato divino del termine
che dà nome e vita all’ultima fatica dietro la macchina da presa
(letteralmente “colui che discende”). L’umano inviato
nell’entroterra del pianeta Pandora viene accolto nel nuovo mondo da
una serie di segni celesti che ne giustificano l’intrusa presenza
aliena: tanto che l’ingresso stesso nelle diffidenti grazie degli
indigeni Na’vi non avrebbe motivo di esistere, se le armonizzate forze
naturali non si prodigassero a motivarlo attraverso sospette coincidenze
simboliche. Quello intrapreso da Jake Sully altro non è che un religioso
cammino di purificazione, percorso di (nuova) vita caratterizzato da una
serie di prove finalizzate a trasformarlo in una vera e propria guida
popolare e spirituale. Dissimili nella rilettura dell’ispirazione
originale, Mostow e Cameron lasciano trasparire
l’ennesima affinità nel focalizzare il medesimo punto guida, affidando
alla postazione tecnologica il ruolo di interruttore indispensabile per la
riuscita delle loro creature. Avatar e
The Surrogates funzionano se
distesi sul lettino dei sogni, il miracolo, naturalmente, dura il tempo di
una connessione: strappati i cavi il doppio si accascia al suolo come colto
da infarto. Il design rimanda ad un futuro architettonico prossimo, ma le
storie raccontate non possono non richiamare un recente passato futurista.
Tanto l’avanguardistica base militare di Avatar quanto i moderni appartamenti de Il Mondo dei Replicanti non fanno altro che ingentilire quanto
mostrato sulla sedia da dentista di Matrix
o nel garage di Existenz; squallore
all’ora analogico all’interno del quale i Wachowski “loggavano” le coscienze altrui, mentre Cronenberg violentava il sé interiore
penetrando l’umano corpo con un cavo destinato a collegarsi alla
protesi fittizia. Cameron e Mostow digitalizzano il procedimento
arrivando ad annullare il concetto di dolore fisico, proiettando i propri
interpreti in un mondo addirittura migliore di quello appena lasciato, dove è
possibile riprodurne pregi e altrettanti difetti. I surrogati de Il Mondo dei Replicanti organizzano aperitivi domestici a base di sostanze
da sballo, squid dal retrogusto bigelowiano che certificano quanto il vecchio
mondo rappresenti ormai un lontano e sgradito ricordo, e come gli esseri che
lo popolavano siano ormai destinati ad un’inevitabile estinzione.
HAPPY END, OVVERO LA TRIONFALE GUERRA
DI CAMERON
L’equilibrio tra realtà sognata e incubo del reale sostiene
l’intera tesi introdotta da Avatar
e The Surrogate, non è un caso,
quindi, che l’illusorio miglioramento dell’esistenza proiettata
virtualmente rappresenti per entrambi la password metaforica di maggior
interesse. Cameron e Mostow collegano i propri attori ad
una zona percettiva dove è possibile fare “altro da sé attraverso
sé”, liberandosi di handicap fisici (la sedia a rotelle di Worthington) o annullando soffocanti
patologie della mente (l’agorafobia di Willis). Graphic novel alla mano è il trio Brancato, Ferris, Mostow ad avere l’opportunità di
tornare a politicizzare il genere, usandolo come mezzo per arrivare oltre
l’intrattenimento tout-court: Contrariamente alle aspettative Il Mondo dei Replicanti si rivela
progetto incompiuto, vorrei ma non posso almeno dal punto di vista del
messaggio sotto testuale. Il tandem Brancato-Ferris
replica solo in parte quanto di buono mostrato con The Game di David Fincher, mancando colpevolmente
di approfondire il versante investigativo della vicenda. The Surrogates resta intrappolato tra quello che sarebbe potuto
diventare (le accennate citazioni “epidermiche” di Essi Vivono di John Carpenter)
e ciò che finisce per essere: nulla più di un film piacevole, durante la
stesura e la realizzazione del quale nessuno, tra regista, sceneggiatori o
direttore della fotografia decide di sporcarsi poi tanto le mani. Con Terminator 3 Mostow aveva lasciato ben sperare, tingendo di funereo nero il
terzo tassello della saga androide: ne Il
Mondo dei Replicanti rinuncia a
reiterare la sterzata negativa alterando emotivamente una chiosa, quella a
firma di Venditti, che
tutt’altro intendeva comunicare rispetto al buonista finale
cinematografico, limitandosi dunque a dichiarare la propria passione per il
botulino prestato alla macchina da presa (oggi Bruce Willis ieri Arnold
Schwarzenegger). Un passo più lungo della gamba, lo stesso compiuto, ma
con successo, da Cameron. A 13 anni
dalle 11 statuette che lo consacrarono, autoironicamente, come il “re
del mondo”, il pluripremiato e osannato cineasta torna a far parlare
prepotentemente di sé attraverso armi e genere a lui più congeniali, alzando
finalmente il sipario su un’epopea di quasi 3 ore, all’interno
della quale convergono ossessioni e autoriali linee guida care al regista.
Dall’insistente e incontaminata presenza dell’acqua (The Abyss) al riverbero della donna
tutta d’un pezzo (oltre alla rediviva Sigourney Weaver le new entry Zoe
Saldana e Michelle Rodriguez, ideali
prolungamenti di una galleria femminile in grado di spaziare dalla Sarah
Connor del dittico Terminator alla
Rose DeWitt Bukater di Titanic).
Politicamente correttissimo, ossessionato da un’ostinata filosofia new
age, Avatar rappresenta il trionfo
finale di tecnologia e sentimenti. Qui l’unico regista al mondo capace
di resuscitare un antagonista per trasformarlo in fonte di salvezza (Terminator 2), riesce
nell’impresa di tramutare un invalido marine in un guerriero prestante
e coraggioso, sbalordendo chi guarda con un prodigio tridimensionale in grado
di non annoiare mai, lasciando addirittura a bocca aperta lo spettatore,
quando, in pieno sottofinale, si assiste increduli ad una sequenza action che
prevede un western in terra e un war movie in aria. Il cinema di James Cameron è da sempre forma
elevata a potenza con al seguito il minimo indispensabile di sostanza.
Pretendere di più equivarrebbe a rimanere delusi. La questione è tutta nei
limiti, cosa che Cameron conosce
mentre Mostow no. Riuscirà
l’allievo a superare il maestro?
(22/01/10)