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BABEL
REGIA: Alejandro Gonzàles Inàrritu
CAST: Brad Pitt, Cate Blanchett, Gael Garcìa Bernal
SCENEGGIATURA: Guillermo Arriaga
ANNO: 2006
A cura di Pierre Hombrebueno
BRUISE PRUISTINE: WE WERE BORN TO
LOSE
Mentre si sta guardando un film di Inàrritu,
si è sempre avvolti, ogni secondo, da una percezione di paura emotiva per
quello che sappiamo o intuiamo stia per accadere: la tragedia umana.
Estremizzata da una dimensione esplicita ed esplosiva a cui da sempre il filmaker ricorre, in quanto cant(aut)ore del dramma, del dolore che vuole
irrimediabilmente toccare, coinvolgere, distruggere lo spettatore.
Così era per le sue precedenti opere, e così è per Babel, che ripercorre
casi di fatalità, coincidenze mortali che stavolta non legano più solamente
diversi personaggi di un medesimo spazio, bensì diverse nazioni. Una scatola
nera che cuce frammenti internazionali per legarli in un unico grande disegno che parte da una pistola regalata dal
Giappone, che in mano a due ragazzi marocchini, finirà per sparare ad una
turista americana, i cui figli subiranno orrori similmente fatali in Messico.
Ancora una volta, è il destino che unisce questi turbinii di frantumazione
spirituale, a riportare l’uomo, che sia americano o marocchino, nella sua
condizione premeditata e scritta: la sofferenza. E Inàrritu non conosce il
fuori-campo, l’immaginato, in quanto intende
portare questa stessa sofferenza in chi assiste all’opera (un po’
come quell’altro Lars Von Trier, in
fondo) con continui attacchi ed aggressioni estreme, un’amplificazione
del dramma sempre pronta a colpire (ed affondare), a penetrare oltre le
immagini mostrate, ad eccitare sensazioni che non possono lasciare
indifferenti.
Una macchina da presa che non conosce le dimensioni dell’ellissi, sorta
di voyeur sadico che gode, vuole far vedere ed incidere a tutti i costi.
Dunque, un Cinema che rifiuta le intuizioni, la personalizzazione spettatoriale, in quanto obbliga a
percorrere un’unica strada senza vie di trattative, di dialettica verso
l’altra parte del telone bianco. E se in ciò sta il limite (se non il
difetto) dell’autore di 21 grammi,
in esso risiede anche la sua forza e la sua unicità,
le emozioni rarefatte che riesce a dare il suo Cinema.
C’è chi vede in questo procedimento un qualcosa di “dannoso perché
cerca di fregarti e se non ci si protegge, ci riesce” (Simone Emiliani -Sentieri Selvaggi). Ma
nel modus operandi di Inàrritu non
risiede forse proprio quella natura stessa del Cinema come illusione e
coinvolgimento tramite la falsificazione, e dunque, tramite la fregatura? Anzi,
di più, il Cinema migliore non è proprio quello che riesce a
“fregarti”, ad abbassare le tue guardie per subire passivamente
immagini e suoni che scuotono le proprie percezioni, lo stomaco? E Inàrritu, anche
stavolta, ce la fa a decostruire l’anima dei suoi personaggi e dei suoi
spettatori, grazie anche ad una lezione assimilata dalle esperienze precedenti:
al contrario di 21 grammi infatti, il regista ha finalmente imparato a non farsi
modellare dalla potentissima sceneggiatura autorializzante
e bulliccia di Guillermo Arriaga, mostrando gli eventi in modo
più chiaro e diretto - poco o niente viaggi insensati nel tempo aka frammentazione diegetica
all’inverosimile, ma un’enunciazione (quasi) lineare, fluida, che
riesce a dare agl’eventi maggior enfasi e forza.
E Arriaga l’ha esplicitamente detto nelle interviste,
che essendo stato occupato alla promozione de Le tre sepolture con Tommy Lee Jones, non è riuscito a
partecipare fisicamente alle riprese con le sue suggestioni meta-intrippali.
Noi diciamo “Grazie al Signore”, perché come conseguenza di ciò Inàrritu ha avuto
totale libertà di gestione e manutenzione spazio-temporale, come già per Amores Perros,
incastrando perfettamente i pezzi di puzzle, seppur magari paradossalmente, e
ancora una volta, dimostrando la grandissima abilità di usare i suoi attori
come martiri prescelti e torturati, valorizzando finalmente appieno le loro
performance non spezzettandole, bensì donando esse del pathos carico e un
climax finalmente continuativo, e per questo, ancora
più incisivo. S’è parlato dell’interpretazione di una vita per Brad Pitt e così è
stato: recitazione intimistica, implosiva, trattenuta
ma forzante allo stesso tempo. Così come il resto del cast, dalla ormai
consacrata Cate Blanchett,
fino alla rivelazione (almeno per noi occidentali) Rinko Kikuchi; recitazioni volutamente
esagerate (alla Actors
Studio) con urla (ulteriormente amplificate dal sonoro) a squarciagola, lacrimoni, tremiti corporali iper(meta)fisici.
Babel è l’opera completa di uno degl’autori (sempre) più interessanti del panorama
internazionale, con momenti di una bellezza poetica che va
dall’iper-realismo al puro trip oniricizzante;
da ricordare la bellissima scena della discoteca giapponese, con quelle luci in
continuo flash vibrante e quell’alternare le
visioni oggettive e soggettive della Kikuchi, prima di perdere anche quella poca fetta di sogno
che si stava creando in una full immersion nella solitudine e nel dolore, il
rumore che si tramuta in silenzio, il caos in quiete (morte), i corpi vaganti
in fantasmi trasparenti.
Inàrritu
non si vergogna di giocare sporco chiudendo gli spettatori (cavie) in un
baratro di aggressioni violente senza vie
d’uscita. Rimane sempre la solita e classica domanda, essendo consapevoli
della strada che si sta per battere: prendere o lasciare?
O meglio: Siete disposti a farvi fregare? Se
la risposta è si, tirate il fegato e rompete la febbre, pronunciando il vostro
ultimo addio.
(29/10/06)