BED TIME di Jaume Balaguerò
REGIA: Jaume Balaguerò
SCENEGGIATURA: Alberto Marini
CAST: Luis Tosar, Marta Etura, Alberto San Juan, Petra Martinez
NAZIONALITÀ: Spagna
ANNO: 2011
USCITA: 27 Luglio 2012
VESTITO PER UCCIDERE
Oscurità, silenzio, vuoto. Un orrore senza volto che si trasforma nell’ombra deforme di un’esistenza tranquilla. Una piaga dell’anima che riversa, inesorabilmente, all’esterno la propria frustrazione. Un sadismo nascosto da un’impeccabile mimica facciale. Una faccia di bronzo mascherata da innocuo e indifferente custode di palazzo. Nient’altro che un esperto cacciatore che, munito di tutto il necessario, studia i movimenti della sua preda giorno dopo giorno, fino al momento in cui, capace di prevedere le sue mosse, gioca d’anticipo e la mette nel sacco.
Thriller psicologico di alto bordo, Bed time si rivela una pellicola centripeta e claustrofobica che, traendo linfa vitale da un orrore quotidiano oscuro e misterioso ma perennemente presente e percepibile, riecheggia De Palma nei suoi giorni migliori. Doppia personalità, direbbero alcuni, Vestito per uccidere, suggerirebbero altri. In ogni modo, la realtà delle cose non cambia: Jaume Balaguerò, a fronte di prodotti come Nameless, Darkness, Fragile e la dilogia di Rec, si conferma, a tutti gli effetti, il miglior rappresentante del cinema horror spagnolo contemporaneo. Lasciando a casa (d’altri) gli effetti speciali, punta la lente d’ingrandimento su una paura sotterranea che, silenziosa e impercettibile, logora la vittima prima nel corpo e poi nell’anima. Un terrore ossessivo che lacera inconsapevolmente nel profondo, che svuota, che convince a pensare che non valga la pena di vivere. Balaguerò, dunque, si avvicina ai personaggi, si adatta alle loro abitudini, ne condivide le paure più profonde ma li lascia liberi di agire (o di essere agiti). Narratore esterno ma onnisciente, demiurgo sadico ma dispiaciuto, burattinaio diligente ma divertito. Non prende le parti di nessuno, mischia le carte in tavola e, quasi, giustifica le azioni perverse e degenerate di alcuni di loro. Accresce le loro attese, aumenta le loro paure e, silenziosamente, in un angolo, da lontano, si trasforma in un voyeur curioso e invadente che non vuole far altro che spettegolare dei fatti (o misfatti) altrui.
E così il regista posiziona la macchina da presa abbastanza vicino ai suoi protagonisti e attende pazientemente che le cose si evolvano, anzi: degenerino. Le sequenze sono lunghe, monotone, ripetitive, (quasi) prive di suoni e rumori, rispecchiate da una fotografia fredda e appannata che riflette il mondo piatto, monocorde e uniforme del suo unico abitante. Quando la tensione accumulata fotogramma dopo fotogramma raggiunge il suo apice, lo sceneggiatore Alberto Marini inserisce depistaggi e false risoluzioni degli enigmi per far aumentare i sospetti degli spettatori e (ri)accender(n)e la tensione brevemente sopita. Un gioco di riflessi opposti e speculari, un carnevale di maschere monocrome e interscambiabili, una messinscena artificiosa e sofisticata perennemente in bilico tra silenzi e interruzioni, tra respiri e sospiri, tra suoni e rumori.