BIANCANEVE di Tarsem Singh

REGIA: Tarsem Singh
SCENEGGIATURA: Marc Klein, Jason Keller

CAST: Lily Collins, Julia Roberts, Armie Hammer
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2012 
TITOLO ORIGINALE: Mirror Mirror
USCITA: 4 aprile 2012 

RITAGLIARE I GIORNALI DELLA ZIA

Ci sarebbe da rimpiangere l’Alice di Tim Burton, se non che mettersi ad attendere quell’altra Biancaneve, col cacciatore e le armature, nel film di Rupert Sanders. Remix pacchiani, senza timore, senza problema. Passare da sanguinari Immortals a Julia Roberts paralizzata dal collo in giù: da un carrello della spesa grande ad uno gigantesco, senza porre questione. Banalmente e senza sagacia puntuale: non tutti sono Scorsese, che ci ha messo quarant’anni per fare un film per bambini senza che in realtà nemmeno lo fosse. Anzi, precisamente, distinguere: film per bambini (e adulti) e film che i bambini vanno a vedere (con gli adulti) perché gli è stato insegnato così; tanto che The Fall è più per bambini che Biancaneve, e questo non è per nessuno, autenticamente – fairy tale vs. un insieme di pose.
Biancaneve senza sinonimi e piena di sintomi, di stanchezza vagante e galleggiata mai troppo a lungo, in ritardo su qualsiasi mashup e una retrocessione rispetto a Dorian Gray di Oliver Parker e a The raven di James McTeigue e dei loro frullati narrativi monocolore. Tanto che Tarsem appare tecnico tra i tecnici, nell’assemblamento sempre parziale di Biancaneve: un plot a metà, personaggi a metà, ambienti a metà, ma non minuti, non nani. E i nani ci sono: balordi briganti ex-lavoratori e multietnici, altre idee lasciate a metà. Un film nanesco è l’Alice di Burton, dove tutto è tozzo e sgraziato, completo ma venuto male e colpevole; mentre qui è un seguirsi di frasi lasciate a metà, dove l’arrangiamento non è parziale, ma mozzato.

Tutto parzialmente La Chapelle e copertina patinata photoshoppata male. Eccessi di luce e di colore, spazi vuoti resi murali da tinte piene e contorni d’ogni cosa come eyeliner pesante: tutto ciò che Tarsem ha sempre fatto. «Prendete quel regista per fare un bell’exploit visivo, ma non troppo, ed esageriamo: nei primi sessanta secondi mettiamo insieme animazione 2D, Julia Roberts, una lanterna magica, burattini di legno in computer grafica e poi siamo a posto per cento minuti. Il castello è mediorientale, sembra uscito da Aladdin, a strapiombo su neve a perdita d’occhio, le sopracciglia (e non solo) di Lily Collins sembrano quelle di Jennifer Connelly almeno fino al 2000, rivalutanto la foltezza 90’s. Una regina arrapata, una cougar già fuori e in ritardo e diamole le uniche battute interessanti, anche se i lampi maggiori sono al di sotto di un dialogo lunch di Sex and the city. Facciamo un “oltre lo specchio” come nessuno l’ha mai fatto: una Tahiti sotto un’eclissi di sole – ma poi freghiamocene, lasciamola da parte».

Tutto ciò che di interessante in Biancaneve, di visivo e di verbale, sembra relegato ai margini delle inquadrature (al di sotto del convenzionale, al di sotto dello scolastico) o mutilato dal montaggio. Biancaneve non sempre sembra un film, e quando lo sembra è venuto male. Che i blockbuster abbiano dialoghi messi insieme con colla di quarta categoria è quasi accettabile (Transformers e Mission: Impossibile – Protocollo fantasma ne sono pieni), soprattutto nell’ultimo terzo, quando l’azione prevale; ma Biancaneve è così dall’inizio alla fine.
E ormai l’esuberanza cromatica non fa più paura a nessuno (Speedracer è forse l’ultimo ad aver dato quest’ansia spettatoriale), in reiterata distanza da quella registica.

È come se il Tarsem di The Cell avesse allestito ogni set per ogni giorno di riprese e poi si fosse sparato un colpo in testa senza girare un minuto di film, senza che nessuno della troupe se ne fosse accorto.

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