BOBBY
REGIA: Emilio Estevez
CAST: William H.Macy, Emilio Estevez, Sharon Stone
SCENEGGIATURA: Emilio Estevez
ANNO: 2006
A cura di Pierre Hombrebueno
VENEZIA 06’: APPUNTI MENTALI
SU BOBBY DI EMILIO ESTEVEZ
Opera di coralità, complicità, e unione. Non solo tra i
personaggi, riflessivi e riflettenti alle prese con i loro problemi quotidiani,
ma anche tra fiction e realismo, invenzione e verità. Dunque,
Cinema che ama interrogare ed interrogarsi, non solo nel proprio ambito
artistico/tecnico, ma anche e soprattutto nella valenza sociologica nel
ritrarre la vecchia-nuova America, colpevole si, ma contemporaneamente ferita e
bisognosa di rinnovare il suo sogno spento, il suo avvenire un tempo così
dorato e portatore di grandi valori in tutto il mondo.
Dal 68’, l’assassinio di Bobby Kennedy. La morte di una speranza e
di un’aspettativa ancora prima della sua
nascita. Il calare del sipario verso un nuovo domani, quel
domani irrimediabilmente ripreso (e represso) nell’oggi, nel famigerato
11 Settembre 2001, altro giorno di lutto, d-day che ha cambiato la percezione
del Cinema Americano (e non) verso il buio e il nero. Ma Bobby (il film, ma anche proprio la
figura di Kennedy) non è che un invito a resuscitare dalle ceneri in modo
dignitoso, in una sorta di auto-celebrazione funebre
che finalmente, stavolta, all’opposto del Crash di Paul Haggis, sa
di sincero e di lucidità fino al midollo. Dunque, il riscatto non solo della
bandiera a stelle e striscie, ma anche del Cinema Americano, perso in patetismi
politically correct, o ancor peggio in ricatti magistrali (lo schifosissimo World trade center di Oliver Stone).
Estevez è soave, calcolato, e soffice
nel tratteggiare la sua America. La sua è un’opera(zione) lucidissima
nella propria chiarezza narrativa e messa in scena classicheggiante (uno
sguardo direzionale non del tutto casuale > Cinema Americano Classico =
Epoca d’oro di Hollywood e dell’America), delineando
una serie di personaggi nelle loro abitudini più giornaliere, di intrighi
extra-privati che immediatamente diventano il riflesso di tutta una generazione
(x,y,z) e delle sue problematiche sociali, dalla guerra del Vietnam alle
piccole/grandi discordanze di coppia, fino al razzismo e agli acidi da
fricchettoni. Discrepanze che s’intrecciano
all’Ambassador Hotel per tutto lo svolgersi dell’opera, un climax
lento ma percepibile per portarci al culmine finale dell’assassinio di
Bobby Kennedy davanti a questa folla. E in quel momento catartico, grande e
altissimo momento del Cinema americano degl’ultimi
anni: simbolico, suggestivo, sincero, la sfera personale che necessariamente si
mescola con la vita politica, perché obbligatoriamente una intacca
l’altra, vivendo in simbiosi nello stesso corpo e nella stessa anima
(U.S.A dentro e fuori).
Ed Estevez,
in tutto questo, mitizza ancor di più la figura del salvatore Bobby Kennedy
nella scelta di non renderlo mai finzione, ma pura immagine fantasmagorica del
reale, tramite filmati e repertorio d’epoca. Dunque, se la finzione funge
da contro-parete, da ricostruzione psicologica della società Americana, la
figura centrale che si aggira attorno Bobby, cioè la
luce trapassata, rimane quella del corpo (e della voce) reale, in un
atteggiamento che inizialmente potrebbe puzzare di necrofilia, ma che infine
non è che dimostrazione Baziniana del “Non si muore due volte”. Non
contemporaneamente al Cinema e nella vita reale. Ma Estevez fa più di tutto questo:
attraverso questa morte unica, ottiene il risultato a cui punta, ovvero far
rivivere Bobby due volte, stavolta si, nel Cinema e nella vita reale, fuori e
dentro lo schermo. Perché la magnificenza di quella voice off finale sta nella
sua immediata attualità, nella sua trascendenza verso l’America di ieri
così come quello di oggi. Non (più) sola politica, ma
umanità catartica, ri-cucita dal regista in questo sovrimpressionarsi perfetto
tra immagini tragiche di finzione e voci penetranti del vero, come a dirci che
l’Arte, oggi, non può permettersi la propria auto-referenzialità, ma deve
necessariamente confrontarsi e rispecchiarsi nel mondo. Arte fine
all’umanità oseremo dire, o meglio ancora Arte
riflessiva, dello specchio, della reazione. E in Estevez il Cinema e la vita s’
incontrano, non è più solo il Cinema che deve riflettersi nel Mondo, ma è anche
il Mondo che deve riflettersi nel Cinema.
Interessante in questo senso, osservare la scelta del cast, con nomi che vanno
da Anthony Hopkins e Harry Belafonte, arrivando ad Elijah Wood e Ahston
Kutcher. Non una scelta casuale, ma rappresentazione delle
varie facce del Cinema Americano del presente e del passato, dai veterani
(Martin Sheen) alle nuove regine delle teen-movies targate disney
(Lindsay Lohan). Quindi, la collettiva della vecchia-nuova Hollywood che si
unisce abbracciandosi per la propria nazione, per stampare il loro volto in questo atto testimoniale per la speranza e per il futuro. Proprio questa unione ci ha portati immagini di una
suggestione unica, come la scena dove a condividere lo schermo ci sono Demi Moore (nel ruolo di una cantante
alcolizzata) e Sharon Stone (una
parrucchiera cornuta e frustrata), una volta le dive hollywoodiane più
desiderate e fotografate- regine di bellezza, e oggi lì, perdenti, insieme tra
le lacrime come in un funerale. Anche gl’attori
piangono per l’America. Loro, i corpi che dovrebbero far sognare il
pubblico e gli spettatori con la loro bellezza divina, piangono per la fine di
un’era.
A Hollywood non è più tempo per sognare. Ma Estevez fa rivivere il riscatto, un
altro pezzo di speranza in questa strabiliante orchestra funebre. Pian
pianino, stanno ricostruendo un’ ideale.
Nota: La versione del film vista dal sottoscritto alla presentazione durante la
63° Mostra del Cinema di Venezia era “Work in progress”. Non
sappiamo dunque se la versione che uscirà nelle sale sarà uguale, un tantino diversa, o addirittura diversissima.
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