BOILING POINT

REGIA: Takeshi Kitano
SCENEGGIATURA: Takeshi Kitano
CAST: Yurei Yanagi, Dankan, Takeshi Kitano
ANNO: 1990


A cura di Pierre Hombrebueno

MANIFESTO UFFICIALE DI UNA POETICA

Logicamente Assurdo, o Assurdamente logico, in un mondo appartato e confinato, lontano dalla realtà sepp
ur preso da frammenti di vita(lità), unico e celato/mostrato in un Universo personale, irrevocabilmente Kitaniano, Kitano regista regista per la prima volta predestinato e non più inserito casualmente come in Violent Cop, e per questo ancor più personale ed espositore di una Poetica già lucidamente chiara e cristallina, come a mostrarci attraverso un buco della serratura sprazzi futuri di Sonatine o Hana-bi, per non parlare del benedetto suicidio artistico tra Takeshis’ e Kantoku Banzai, senza tralasciare Getting any.
Ma andiamo piano e con ordine, in quanto ci troviamo davanti ad un testo fottutissimamente ricco; partiamo da quella primissima scena che apre la pellicola, dal primo piano sul protagonista avvolto dal buio, in un quadro che se preso a sé stante, sarebbe la degna presentazione di un (futuro) Gangster tinto di noir e oscurità. Poi, Stacco. Immediatamente, il regista ci gioca il primo sberleffo: Capiamo che in verità il tizio in questione, quello inciso di nero travolgente, stava semplicemente cagando, infatti lo vediamo uscire dal cesso, per poi dirigersi al campo per giocare a Base-ball.
Già da questa micro-sequenza, è palpabile e chiara l’intenzione mescolatrice dell’occhio di Kitano: siamo in un territorio violento e marcio, ma contemporaneamente la messa in scena è comica, di quella comicità implicita, qualcuno direbbe “sotterraneamente giapponese”. Fatto che si amplifica ulteriormente nelle inquadrature e soprattutto negli stacchi della partita iniziale, dove ai campi statici e fissi, si alternano primi piani sul volto impassibile del protagonista (espressione della nullità che sarà proprio del Kitano attore qualche anno più tardi, anche a causa dell’incidente che gli paralizzerà parte del viso – tutto ciò è macabramente anticipatoria e al contempo inquietante), sfigato, assente, fantasma del vuoto. Stacchi del genere su (in)espressività simili, sono esattamente topoi di un certo Cinema Comico (perché non tirare in mezzo proprio Buster Keaton e il suo volto ectoplasmico?), con la differenza che qui non siamo in un territorio di comicità, bensì in un gangster movie e un drama che man mano che procede, si rivelerà sempre più anomala ed anarchicamente impazzita, dunque, puro Kitano. Perché ciò che il regista fa con la logica è distruggerla per ricrearla in un proprio mondo, azione che lo allontanerà immediatamente dall’ essere un secco mestierante, per innalzarlo a livello di sborone in tentativo di autorialità, autorialità perfettamente riuscita, se per il termine si intende la ri-elaborazione personalizzata della narrazione e della formalità spazio-temporale del proprio materiale trattato, volgendo così uno sguardo sul Cinema e sul Mondo. Ciò si evidenzia ancor di più in quanto l’anarchia inizia proprio con l’ingresso in campo di Kitano, regista che ritorna attore davanti alla macchina da presa per esprimere meglio chi è che sta comandando l’operazione: Ecco allora la scena del Karaoke al Bar, totalmente allucinata e ripresa in un piano sequenza ad lsd e macchina a mano, vero punto di rottura in quanto in tutte le scene precedenti del film sono stati utilizzati semplici piani fissi; Kitano ci vuole avvertire non solo che qualcosa è cambiato all’interno delle vicende, ma anche che ora, più che mai, entriamo dentro la totale illogicità, in un neo punto zero che è rappresentato dalla stessa entità che sta sia dietro che davanti la macchina da presa. Lui, Yakuza-Kitano, che prima dice alla propria donna di scoparsi l’altro compagno Yakuza solo per il proprio gusto voyeuristico. Lo stesso Yakuza-Kitano che sodomizzarà il compagno, proprio per punirlo di essere andato con la sua donna. Ed infine, lo stesso Yakuza-Kitano che continuerà a picchiare la donna per l’atto di infedeltà che proprio lui ha voluto. Insomma, capiamoci, qualcosa non va. E citando gli Sguardi d’Autore del nostro Nicola Cupperi, possiamo solo dire che Kitano è un fottuto pazzo.
Ma ciò che va sottolineato è che è proprio questa pazzia che traspare ogni volta in ogni suo singolo film. Che questa pazzia, logicamente assurdo o assurdamente logico, è parte integrata di una Poetica dell’estraneamento, di corpi, spazi e tempi che non seguono nessuna regola(zione) se non quella che compone l’Autore all’interno dei suoi cerchi di percorso.
Aveva fottutamente ragione Hou Hsiao Hsien quando ha sostenuto che i Gangster di Kitano rimangono sempre e comunque fuori dal mondo vero, perché al regista di Boiling Point fotte un fico secco di rappresentare le fila di un neo-neo-realismo, della crudezza dura e pura come si vedeva in molti film della New Hollywood. In Kitano la violenza è invece quasi inaspettata, sotterrata, come una bomba ad orologeria però senza orologio, e dunque pronto ad esplodere in qualsiasi istante, quando meno te lo aspetti, mentre magari stavi ancora ridendo per la scena prima, dove tutto scorreva nella più lieve tranquillità illusoria di un mondo rappresentato da Piani Fissi (inquadratura della stasi per eccellenza) e sguardi immobili ed impenetrabili, volutamente ambigui e per questo ricchi e densi di significazioni interpretative, anche se forse da interpretare c’è ben poco. E’ semplicemente autentico Kitano. E in quanto Kitano, da subirsi come uno shot potentissimo e da sballo cronico.
Boiling Point è importante in quanto primo reale manifesto della poetica di uno dei Migliori Autori Cinematografici Contemporanei di tutto il mondo. E ancor di più perché è un manifesto trasparente, che senza troppe pippe dichiara le sue regole sregolate. E’ un film che andrebbe visto e rivisto a ripetizione, per captare in esso la sua ricchezza di espedienti che poi ritorneranno (per arricchirli) nei prossimi lavori dell’Autore, perché quant’è vero che il Kitano di oggi, 2007, sta portando avanti un puzzle maestoso, la verità è che il primo tassello del progetto inizia proprio qui, in Boiling Point. Qui abbiamo il Yakuza impazzito, i volti fantasmatici, il martirio, il sacrificio, gli scatti di violenza, la disgregazione della classicità. Qui abbiamo la Spiaggia, che sarebbe solamente una scena in jump-cut all’interno di questo singolo film, ma in quanto non possiamo trattare un film di Kitano come singolo film, bensì come Atomo di una filmografia ed un progetto Autoriale più grande, allora nemmeno la Spiaggia è più una semplice spiaggia. Nemmeno quei jump-cuts sono più semplici jump-cuts.
Quella in spiaggia, da semplice scena, diventa invece Marchio di fabbrica. D’Auteur.

(21/11/07)

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