BOY MEETS GIRL di Leos Carax

REGIA: Leos Carax
SCENEGGIATURA: Leos Carax
CAST: Denis Lavant, Mireille Perrier, Carroll Brooks, Maïté Nahyr, Christian Cloarec, Lorraine Berger
NAZIONALITÀ: Francia
ANNO: 1984              

SINFONIA DELLA (CRUDELE) SOPRAVVIVENZA PER OMBRE INSONNI

«Only love can live in my dream
I’ll wish, and the thunder clouds will vanish
Wish, and the storm will fade away
Wish again, and you will stand before me while the sky will paint an ouverture. »

Ragazzo-incontra-ragazza. L’assioma (elementare) di partenza, designato titolo del film, è la promessa di una decostruzione dello stesso, di un dissezionamento delle aspettative, di uno sfondamento della rotta rappresentativa nelle dissolvenze. Perché in verità, in un esordio che fulmina gli occhi e manda in combustione il cuore, Leos Carax prende il postulato narrativo per eccellenza e lo sfilaccia in un andamento tortuoso e spiazzante, reiterandolo nella segmentazione stratificata, nell’impianto liquido e multisoggett(iv)o, reso mosaico di una diversificata fauna umana (ragazzo incontra ragazza ma anche un (ex) amico, un uomo, una donna, una coppia, un vecchio, un bambino, butterate figurine televisive, persino neonati: contatti sfuggenti, bagliori di sguardi passeggeri in una danza dello sfiorarsi).

I suoi personaggi sono corpi alieni alla veglia, inabissati nella guaina di un b/n che respinge lo scioglimento in colori vividi, ferito e inabile a detergere le irregolarità dell’incompiutezza umana. Il bicromatismo caraxiano riesuma rivoli della Nouvelle Vague a cui rivolge continui rimandi, vivificantisi attraverso soluzioni visive, scelte stilistiche, tocchi espressionistici e sferzate repentine (le crasi dei jump cut, dei fotogrammi scuri, le sovrimpressioni di sguardi in rilievo effimero, sfuggente, passeggero, dell’astrazione sospesa delle presenze/assenze).

Alex e Mireille, alter ego l’uno dell’altra, sono anime liquefatte da un’esistenza schiantata, folli alieni che si struggono raschiando la solitudine ai confini di una notte eterna, resi spirit(at)i dall’amore, rette – più che parallele – incident(al)i, e insieme sghembe. Danzano a tentoni su un paravento che diventa cielo puntiforme, componendo in silenzio una sinfonia di sopravvivenza (comunque crudele) per ombre insonni e romantiche; e vegetano, ostaggi del passato (da cui cercano un riparo in un rifugio dalle blande munizioni – cd musicali sigarette e autoimposizioni –) rimessi in circolo per un attimo dall’incontro con l’altro.

Frattanto Godard (g)al(l)eggia come ispirazione sovr(um)ana, e lo stesso Truffaut, nei 400 colpi/incontri/cuori malinconici di un Doinel scalcagnato (Alex come propagazione di Carax stesso) che traccia una mappa geografica di Parigi convertendola nelle proprie (da lui decretate come) fondamentali tappe della vita, che circolano sfregi ordinati sulle pareti.

Spettatore/spettro/attore attonito, in fuga tra ponti e gallerie, Alex trafuga stralci dolenti di vissuto sotto l’offuscamento della nebbia, incrocia fantasmi febbrili, vasi non comunicanti, specchi rifratti in moltiplicate maschere piangenti. Volteggiano su stelle disegnate e si spingono sino alle origini della morte dell’amore, un sabotaggio letale che raccoglie le spoglie dell’incanto, di cuori sepolti insudiciati dall’abitudine (“voglio solo te ma non voglio essere amato da te”, “ti odio per ferirmi e siamo più soli quando siamo insieme”, “non vedo la tua bellezza ma lo spazio che mi togli”. Questa l’agghiacciante sentenza: il germe dell’insofferenza masochistica s’impossessa di noi e distruggiamo quello che amiamo).

Si recita su sipari antinarrativi, schegge che rinvengono a tratti depositando pulviscoli memoriali tra una fuga e un’altra. È una realtà apatica, regno di cicatrici, laddove il presente è per noi il paradiso degli altri e l’inferno è per gli altri il presente; le parole della consapevolezza (e viceversa) ci hanno reso sconosciuti, nello sradicamento dell’identità con l’estinguersi dell’amore.

Ci obnubila, Leos, con la speranza, e ci tradisce con la fatalità deterministica: soltanto all’ultimo ragazzo incontra ragazza e quando, inesorabilmente, ragazzo ama ragazza, la svolta salvifica è generatrice della tragedia, in un rewind finale che svela l’impaccio fatale del gesto. Mentre una scissione inquietante li imprigiona dietro un vetro, e nella casa di fronte una coppia cieca per la felicità guarda le stelle ignara del mondo.

Opera prima(ria) già fermamente coerente e compatta nei principi, nell’esposizione ponderata di una linea registica, Boy meets Girl vive di caligine, di un romanticismo affranto nel suo compiersi, nell’espressione estrema tra la nouvelle vague e il cinema muto (a cui dedica una dichiarazione d’amore per bocca/mani di un, appunto, sordomuto) che non rifugge la sua inesplicabilità, che vive delle perturbazioni dell’altra metà del tempo – la notte – e l’altra metà della vita – l’amore –. Perché anche di lacrime e di canzoni tristi e di troppo amore, ci possiamo dissanguare.

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