Cannes in cans pt. 1: Refn, Almodovar, Mendonça Filho

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Siamo riusciti a vedere qualcosa grazie alla rassegna milanese (metodo, a quanto pare, più fruttifero del fare le code interminabili in Costa Azzurra), regalandoci la grande truffa di Loach, lo stand-by di Dolan, il portento di Larraín e non solo.

JULIETA di Pedro Almodovar

È un Almodovar dell’apparenza, quello di Julieta. Non un’apparenza ingannatrice, ma sincera, che ci appare come il risultato finale di un progressivo spogliarsi del regista spagnolo. Non più l’effetto, l’orpello, l’esagerazione, l’”in più” che ha portato la maggior parte delle sue pellicole a farsi schermo, carne e poi di nuovo schermo. Julieta si ferma al primo e poi alla seconda, secondo un dettame binario che non ci permette di andare dentro e fuori dalla pellicola, rimanendo incastrati nel leggero iato tra narrazione e messa in scena, tra sentimento spoglio ed impatto melodrammatico, crudeltà contro artificio. Un Almodovar minore, si potrebbe dire, o di una riconferma di arrivo/stop/fermata/stazione. Julieta è un film immobile, una sottolineatura della più recente filmografia dell’autore, dove ritrovarlo del tutto e per niente, sospeso in un (retro)gusto autoreferenziale dove l’annullamento dei fattori è la prima cosa a rimanerci dentro.

 

THE NEON DEMON di Nicolas Winding Refn

Ancora una volta Refn sembra (cercar di) muoversi in uno spazio angusto della propria creatività, in una ricerca limitata a quei due o tre approcci visivi-visuali-(pseudo)visionari che ne costituiscono l’innegabile appeal visivo ma che, nell’applicazione pratica e narrativa, non arrivano ad un’autosufficienza che giustifichi la fattura finale dell’opera. Le idee di The Neon Demon sia quelle cromatiche che quelle prettamente relative al contenuto si ritrovano monche, o al massimo ibride: quello di Refn è un tentativo esasperato di narrare-per-quadri, con silenzi e pose, tra carta da parati ed impeti interiori ed esteriori, ma i suoi tableaux appaiono senza aria, fermi alla patina che li costituisce, al tecnico imposto sull’istintivo. E per quanto questo possa essere considerato come un doppio filo del legame regia/film/storia il risultato è quello di una patina, di una lacca, di un makeup perpetuo che nasconde fin troppo sia la pelle che la carne.

 

AQUARIUS di Kleber Mendonça Filho

Iniziando come una saga e finendo col concentrarsi su una specifica parentesi della vita, Aquarius di Kleber Mendonça Filho è un film i cui pregi finiscono col costituire l’invalicabile limite. Il regista brasiliano possiede un occhio innegabile, capace di rendere magnetica ogni immagine, ma il suo sembra un discorso fermo alla virtù cromatica e compositiva senza che questa di possa mettere in comunicazione con l’animo della sua protagonista Sonia Braga. Mai ostentato ma sempre ostinato, Aquarius è un film distante, dove il personaggio principale sta stretto in quello schermo panoramico, mentre attorno a lei cadono gli addobbi del racconto verso un epilogo che da un primo momento sembrava una diramazione. Nel suo tentativo di giocare leggero, Mendonça finisce con lo scomparire, lasciandoci soli davanti allo schermo, al viso della sua attrice, ai pochi avvenimenti che si vorrebbero cruciali ma che finiscono con risultare pallidi ricordi di un “tutto” che si vorrebbe di passioni (o del loro sbiadito ricordo), dandoci un film sempre più rarefatto, deviato, deviante, scorrevolmente sempre più povero di carica magnetica. Peccato.

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