CARGO 200
REGIA: Aleksej Balabanov
SCENEGGIATURA: Aleksej Balabanov
CAST: Agniya Kuznetova, Alexey Poluyan, Leonid Gromor
ANNO: 2007
A cura di Luca Lombardini
FABULA O INTRECCIO?
In una squallida camera di un lurido e cadente appartamento una ragazza piange
disperata. Il corpo, nudo e più volte violato, è imprigionato a letto
attraverso il polso destro ammanettato alla ringhiera. Ai piedi un paio di
fiabesche scarpe rosse, che lasciano appena intravedere un sottile calzino
bianco. Al fianco dell’adolescente fanciulla il cadavere in divisa del
fidanzato, nell’angolo basso del giaciglio riposa esanime l’ultimo
uomo che ha abusato di lei. Un colpo di doppietta da caccia squarcia la
surreale quiete domestica, inchiodando al pavimento l’aguzzino della
giovane mentre era intento a leggerle le lettere dell’amato militare.
L’analisi di Cargo 200 potrebbe
tranquillamente esaurirsi in questa o in un altro paio di sequenze shock: una
pellicola dai guizzi improvvisi e disturba(n)ti, che probabilmente tanto
piacerebbe a chi intende il cinema secondo la stessa concezione di Alejandro Jodorowsky
(“Quello che io chiedo a un film, ciò che cerco, è un momento, anche solo
un momento che ti si stampi nella memoria, che tu non possa più
dimenticare”); meno a chi ricerca in un’opera almeno un po’
di quadratura del cerchio e giusto equilibrio tra forza delle immagini e
impatto del messaggio. Sospeso tra metafore storico – letterarie (1984 e La città del sole) e tracolli politici, l’ultima fatica di Aleksej Balabanov
cerca di impressionare lo spettatore con il suo realismo sporco e minuzioso,
provoca senza approfondire, dicendo molto ma spiegando poco. Una volta
familiarizzato con l’affascinante coincidenza tra l’anno orwelliano per eccellenza e l’inizio dell’era Gorbaciov, superato lo straniamento
relativo all’immagine di un paese che più povero non si può, abituate le
orecchie ad una delle colonne sonore più cacofoniche che la storia della
settima arte ricordi, subentra la quasi certezza di trovarsi di fronte ad
un’operazione che non ha ben chiari i parametri di come si dovrebbe
raccontare per fotogrammi. Se l’intreccio di personaggi funziona
nonostante la sua struttura un po’ scontata, quello che sembra mancare a Cargo 200 è la concezione della fabula e
delle sue necessita in un racconto. Di qualsiasi tipo esso sia. Semplicemente
manca la storia, che si perde tra le pieghe di un delirio alcolico di represse
violenze mentali e fisiche, e con essa fanno altrettanto i suoi sottotesti,
tanto che le famose operazioni di rimpatrio defunti messe in atto
dall’aviazione russa restano un pretesto appena accennato nel titolo,
mentre le psicologie dei personaggi non superano il livello minimo di timidezza,
lasciando ai posteri macchiette (il professore di ateismo scientifico o il
campagnolo filosofo) anziché caratterizzazioni. Che il comunismo, almeno nella
sua forma più ingenua e innocente, fosse un’utopia irrealizzabile a
qualsiasi latitudine geografica o governativa è cosa risaputa: un po’
meno il perché quest’ultimo non ha portato
benefici, bensì innegabili disastri, proprio nella nazione natia. Piuttosto che
scandagliare quest’aspetto, Balabanov preferisce concentrarsi
sul superfluo, confezionando un film “da festival”,
l’interesse per il quale dura il tempo esatto degli applausi di rito a
fine proiezione. Incassato il colpo relativo alla violenza grezza di alcuni
passaggi, resta il sospetto di aver assistito all’ennesimo esempio di
estremismo autoriale, che lascia sullo sfondo ciò che
invece meriterebbe di occupare, con pieno diritto, il centro della scena.
Fotografia e scenografia da battimani: come dire superficie. Appunto.
(28/05/08)