Venezia 2013 – CHE STRANO CHIAMARSI FEDERICO!: Scola (non) racconta Fellini
REGIA: Ettore Scola
SCENEGGIATURA: Ettore Scola, Paola Scola, Silvia Scola
CAST: Giulio Forges Davanzati, Tommaso Lazotti, Maurizio De Santis, Ernesto D’Argenio, Sergio Rubini
NAZIONALITÀ: Italia
ANNO: 2013
C’è qualcosa, nell’incanto di un sogno felliniano, che lo rende impossibile da replicare per chiunque altro: si tratta di un impasto unico di rabdomanzia giocosa, bonarietà ambigua e grottesca nei ritratti umani e ultima ma non ultima una sorta di “menzogna creatrice”, variante speciale della comune bugia che nel negare la realtà si fa portatrice di una verità poetica tutta sua, al cinema come nella vita di tutti i giorni. Un’ovatta che da sempre fodera il cinema di Federico Fellini creando un triplo strato di magia irripetibile, la cui formula segreta non è accessibile a nessun altro artista al di fuori del regista de La strada e 8 ½.
Un omaggio a Fellini che possa dirsi formalmente rispettoso dovrebbe dunque tener conto di tali fattori e mantenersi a distanza di sicurezza dal rischio concreto di generare un atto d’amore che abbia il sapore fastidioso dell’emulazione malcelata, esponendosi così al pericolo effettivo di venir sbugiardato in quattro e quattr’otto. Di palesare un artificio e una falsità così evidenti da risultare insopportabili, laddove invece il cinema felliniano era pieno fino all’orlo di aspetti mendaci ma non si lasciava smascherare in nessun modo e da nessuno. Pensavi di averne finalmente acchiappato l’orlo della veste, ed ecco che l’arte multiforme del più grande pinocchio del nostro cinema ti era nuovamente sfuggita di mano, correndo verso nuovi e insospettabili lidi, con una pelle già rinnovata e un abito inedito e non più riconoscibile. Tutto ciò, naturalmente, prima dell’impigrirsi stanco ma non meno necessario dell’ultimo Fellini, malinconicamente ripiegato su stesso e sul disfacimento decadente dell’immaginario, suo contemporaneo e prossimo venturo. Non più così risoluto, per ovvie ragioni di disincanto e senilità, nel celare la mancanza di ispirazione facendo orbitare intere e memorabili galassie intorno al Guido Anselmi di turno. Altri tempi. Più bui, televisivi, già schiavi di un linguaggio mediocre, prigionieri di un politichese che non consentiva più le monumentali e narcisistiche evasioni di un tempo.
In Che strano chiamarsi Federico!, Scola compie un errore madornale che pregiudica a monte tutta l’operazione: si bea dell’idea che il suo amico Fellini possa essere raccontato, che il suo cinema possa essere trasposto alla pari, come uno sguardo dritto negli occhi o una pacca sulla spalla tra vecchi compagni di merende. Un documentario felliniano su Federico: sacrilegio ai limiti della necrofilia. Considerando per altro che Scola il maestro riminese arriva perfino a riesumarlo concretamente, mostrandone di spalle la controfigura parlante. Non si limita ad evocarne affettuosamente il fantasma, ma si sobbarca addirittura la sfida di riportarlo in vita, in una sorta di plaisir d’amour estremo e fuori misura. Sulla carta è anche galvanizzante e sfiziosa l’idea che un pilastro portante del nostro cinema ne racconti un altro, ma il taglio dell’operazione presupponeva una mansuetudine ben diversa, anche dal punto di vista formale. La scelta di mescolare finzione e inserti di reportorio/documentario appare in sé di dubbio gusto e finisce col far degenerare in più di un’occasione l’aspetto felliniano del film in un pacchiano gratuito e superficiale, troppo macchiettistico nel maneggiare la silhouette del regista riminese per poterne restituire davvero la portata, la complessità, le luci e le ombre, la meraviglia rara di un cinema che, per dirla con Andrea Zanzotto che di Fellini fu appassionato devoto, “brucia e illumina”. Che strano chiamarsi Federico! si limita a bruciare tutto il suo infinito potenziale ma non illumina quasi mai, se non in isolati momenti che sanno di miracoloso in mezzo a una gestione così sciagurata di elementi simil-felliniani (l’escamotage del narratore, in assoluto il più deleterio). Due su tutti rimangono impressi nella memoria: il filmato che mostra i provini di Tognazzi, Gassman e Sordi nei panni del Casanova (perfettamente inutili e tenuti da Fellini solo per gioco, dato che la produzione aveva già deciso per Donald Sutherland) e l’apparizione di un impagabile Sergio Rubini intento a precisare che il cinema è la settima arte e che quindi – sia chiaro – vengono prima tutte le altre.
Il resto somiglia a una sarabanda di manichini goffi, con la volontà ma senza le reali premesse per inseguire la grazia maestosa e vellutata di un girotondo che sappia toccare davvero le corde del cuore. Dagli esordi al Marc’Aurelio che accomunano sia Scola sia Fellini fino all’esplosivo montaggio finale di fotogrammi passando per le traversate notturne per quella Roma che Fellini amava tanto e alle quali rubava moltissimo, Che strano chiamarsi Federico! annaspa alla ricerca dell’essenza di un cineasta per una sua natura restio a semplificazioni di questo tipo, per di più in un’ora e mezza piuttosto tirata via e poco incline all’approfondimento. Se lettera d’amore doveva essere, sarebbe stato saggio e lodevole scriverla in punta di piedi piuttosto che farne risuonare i passi pesanti e disarticolati. Il film di Scola farà anche venire i lucciconi nostalgici ai critici ultrasessantenni, ma fallisce uno degli obiettivi chiave che pure si era prefissato: fornire un ritratto di Fellini che potesse servire ai giovani come chiave d’accesso per il mondo di un artista unico e spesso ignorato dalla nuove generazioni, non di rado museificato e imprigionato nella retorica paludata della nostalgia e dell’onirismo. Ma vista l’esilità e lo scarso appeal del risultato finale, non c’è da stupirsi se il film di Scola contribuirà, insieme alla sciagurata disattenzione dei programmi scolastici nei riguardi del nostro sconfinato patrimonio cinematografico, a far sì che Fellini rimanga per la stragrande maggioranza dei ragazzi di oggi “er mito de mi nonno!” e nulla più.