CHE ORA E’ LAGGIU’
REGIA: Tsai Ming Liang
CAST: Lee Kang Sheng, Chen Shiang Chyi, Lu Ching Yi
SCENEGGIATURA: Tsai Ming Liang, Yang Pi Ying
ANNO: 2001
A cura di Pierre Hombrebueno
SOLITUDINE DA TAIWAN A PARIGI
Un padre osservato da una macchina da presa statica, un piano fisso di
un’abitudine, come quello di fumare una sigaretta passeggiando nella
propria casa.
Solo nella scena successiva sapremo che quelli erano i suoi ultimi momenti di
esistenza, e che poco dopo s’è n’è andato via in perfetta
solitudine nella piena invisibilità di un ellisse. Da questi primissimi minuti
di Che ora è laggiù, ritroviamo con
coerenza il marchio stilistico di Tsai Ming Liang. Ci (non) presenta una morte
senza enfasi, cogliendo solamente pochi attimi di vita vissuta con naturalezza,
proprio come è naturale la morte che ci porta via in un soffio, prima di
accorgercene. E in qualche modo ci condanna a morire in solitudine, proprio
come è morto il suo primo personaggio di quest’opera.
Siamo lontani da quell’altra morte paterna che Wong Kar Wai ci aveva
fatta vivere in Angeli Perduti,
sentita e metabolizzata con le parole del protagonista, i ricordi espliciti e
vivi (flashback in montaggio sequenza), e una canzone di sfondo.
Tsai Ming Liang rifiuta tutto questo, così come ha sempre urlato contro il
Cinema di oggi, fatto di suoni ed esibizioni montaggistiche che coprono
l’importanza dell’immagine dura e pura. Arriva a rifiutare anche la
disperazione di un figlio troppo occupato a pensare ad una ragazza
(trasferitasi a Parigi) di cui si è innamorato.
La disperazione del lutto, studiata, impressa, e mostrata, sarà quella della
moglie del defunto, talmente ossessionata dal marito da immaginare ancora di
fare l’amore con lui durante le notti di solitudine.
Si, solitudine è ancora la parola chiave per Tsai Ming Liang, una solitudine
che rende i suoi personaggi dei perfetti ectoplasmi alienati, osservati dalla
macchina da presa in una sorta di silenzio liturgico per trarre da quelle anime
isolate l’esasperante drammaticità del loro (non) conforto.
Ed è così che vediamo il protagonista Hsiao Kang, pensieroso e al buio, mentre
fuma una sigaretta (simbolo della solitudine per eccellenza nel Cinema Asiatico)
davanti alla televisione dove scorrono le immagini de I 400 colpi di Truffaut. L’unico, estremo modo per tentare di
(ri)congiungersi con la sua amata di Parigi.
Che ora è laggiù è quindi un film di
auto-convincimento mosso da un profondo amore, un tentativo ultimo
d’approccio per (ri)avere persone impossibili, persone morte o troppo
lontane. Si tende a fare l’amore con le anime, e persino a cambiare
l’ora di tutti gli orologi della città per sperare, in un qualche senso,
di trovarsi nello stesso posto di chi amiamo. Ed in fondo, Tsai Ming Liang
sembra dirci che è proprio così: nonostante la grandissima distanza che può
separarci da una persona, siamo comunque tutti sotto lo stesso tetto di questo
grande mondo. Così, arrivano le coincidenze di vite parallele e legate dal filo
rosso del destino: Mentre Hsiao Kang è a Taiwan in camera sua a visionare I 400 colpi, dall’altra parte del
mondo, a Parigi, la ragazza di cui è innamorato (e ossessionato) incontra Jean
Pierre Lèaud seduto in una panchina.
Momento magico nel Cinema di Tsai Ming Liang, in cui omaggia Francois Truffaut,
uno degl’autori che più ha segnato la sua esistenza di film-maker. Da
Truffaut abbiamo la fugacità dell’amore, e se per Antoine Doinel bastava
una foto strappata trovata in una cabina per innamorarsi di una sconosciuta,
per Hsiao Kang basta vendere un orologio ad una ragazza incrociata per caso.
Ma così come ci vuole un niente per innamorarsi, ci vuole ancor meno per vedere
troncato un’amore sul nascere.
Lo sapremo solo qualche anno dopo che Hsiao Kang e “la ragazza
degl’orologi” si incontreranno ancora, nel (quasi) sequel Il gusto dell’anguria.
Per ora ci limitiamo ad osservarli come anime disperse nelle metropoli, in una
Taiwan dove non c’è più comprensione tra madre e figlio, e in una Parigi
talmente confusionaria che è impossibile persino ordinare in un ristorante. Ed
è proprio Parigi la città alienante su cui Tsai si focalizza, rendendo evidente
il proprio intento quando mostra la protagonista immobile nelle scale mobili,
mentre un branco di persone corrono indaffarate, come se stessero cercando a
tutti i costi di andare contro il tempo, così frettolosamente senza mai
toccarsi. E’ la tristezza di una grande città dove ci sono milioni di
abitanti che convivono tra di loro in isolamento, dove nessuno conosce nessuno,
e tutti se ne fregano di tutti. Ancora una volta, Tsai Ming Liang ci mostra
tutto questo con estrema contiguità, racchiuso tra 2 (4) pareti come un peeping
tom che filma pezzi di (sur)realismo rifiutando il pathos e il montaggio
all’interno delle sequenze per confinare i suoi sintagmi in una
dimensione parallela, tra il nulla e l’addio. In qualche modo ci riporta
ai tempi di Lumière e Meliès, anni prima della rivoluzione Griffithiana. Attua
così una contro-rivoluzione all’indietro, una lezione di Cinema che
sembra ormai dimenticata oggigiorno, una scelta radicale di scavare nei suoi
personaggi senza forzare mai la purezza dell’immagine lasciata al caso di
un’impronta quasi documentaristica alla cinèma vèritè. Ogni quadro di
questa pellicola imprime in sé la solitudine che l’autore vuole mostrarci
con la potenza della messa in scena e i corpi degl’attori, che
volteggiano nel vuoto, in uno spazio immaginario ricreato metafisicamente da
sogni e speranze. In Che ora è laggiù
si vive di vita altrui, di sogni irrealizzabili(?), vere ed asettiche, rese
vive con un approccio all’immagine “primitivo”.
Così, alla fine del film, i 3 protagonisti dormono. Soli nel loro mondo
personale. Ma domani sarà di nuovo alba, e non si sa mai come potrebbe girare
questo strano ciclo della vita, visto come un orologio senza tempo, o una ruota
panoramica che è sempre in movimento nonostante la quiete.
(04/12/05)