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CHERI  / G.I JOE – LA NASCITA DEI COBRA

REGIA: Stephen Frears / Stephen Sommers
SCENEGGIATURA: Christopher Hampton / Stuart Beattie, David Elliot
CAST: Michelle Pfeiffer, Ruper Friend / Dennis Quaid, Channing Tatum
ANNO: 2009

 

A CURA DI SANDRO LOZZI


UN CORPO E UN’ANIMA: CHÉRI E G.I. JOE

Lei e lui: si innamorano, vengono separati, poi si rivedono, infine si lasciano per cause esterne. Questo, ad un sufficiente – ma non eccessivo – livello di sintesi, è quanto avviene nel nuovo film di Stephen Frears. L’azione, e con essa la narrazione, sono ridotte al minimo indispensabile, letteralmente ‘all’osso’, ad essere ovvero lo scheletro di un corpo, di un film fisico come non ne vedevamo da parecchio tempo. Chéri è esattamente questo, il simulacro di un corpo umano, la messa in scena estrema (nel senso di estremamente fisica) del corpo come metafora del film, in una retorica non tanto metacinematografica ma sensibilmente filmica.
Quasi un’apologia della vecchiaia, Chéri celebra l’effimera longevità («un buon corpo dura per tanto tempo») della vita quasi-biologica dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
La macchina da presa segue un corpo che sembra eterno, quello di una sempre meravigliosa Michelle Pfeiffer, soffermandovisi ogni volta, alla fine della scena, a coglierne la vitalità e l’evoluzione espresse da reazioni, commenti, pensieri, sguardi, riflessioni. Così facendo, Frears celebra il film, in parallelo con la sua effigie pro-filmica, come corpo da conservare e restaurare, e celebra il cinema come morte del corpo, per restare forse pura luce e controluce. Il corpo non sopravvive alla memoria: il primo piano sospeso finale, eterno ed etereo, della Pfeiffer che guarda aldiquà della macchina da presa, è il corpo che guarda al futuro in cui non ci sarà più, e resterà solo come ricordo e pensiero.

Prettamente fisico è anche un altro film uscito praticamente in contemporanea con Chéri; ma se con la pellicola di Frears siamo nell’ambito della meccanica statica (e quasi nella biologia), qui ci spostiamo decisamente nel campo della cinematica: sto parlando di G.I. Joe, ultima fatica di Stephen Sommers. Se in Chéri non succede niente così da focalizzare tutta l’attenzione sul corpo, qui accade l’esatto contrario, i corpi sono nascosti e non smette mai di succedere qualcosa. In mezzo a una miriade di personaggi tra buoni e cattivi, l’unica protagonista è l’azione, anima del cinema contemporaneo, la descrizione dei movimenti, un frenetico pulsare di vitalità. I corpi qui spariscono in avveniristiche tute dell’invisibilità che li rendono appena percettibili solo se in movimento, oppure ancora sono calati in armature acceleratrici che negandoli alle leggi della fisica li rendono appunto non-corpi.
Se in Chéri i movimenti (intesi proprio come spostamenti e viaggi) sono pochi e per lo più non mostrati, G.I. Joe al contrario si nutre e ci sfama di solo movimento. Lampante, da questo punto di vista (ma anche riguardo al funzionamento stesso della narrazione cinematografica), il lungo capitolo ambientato a Parigi, quello dell’attentato alla Tour Eiffel. Chiunque abbia un’idea anche molto approssimativa della geografia del centro della Ville Lumiere, si renderà facilmente conto di come la sequenza dell’inseguimento si snodi lungo un percorso che è lungo almeno quattro o cinque volte il tratto di strada che avrebbero dovuto percorrere. I protagonisti della folle corsa cittadina vengono a contatto visivo nei pressi dell’arco di trionfo, e il traguardo è la Tour Eiffel, ma per andare da A a B, che sono relativamente vicini, i nostri pensano bene di non seguire la linea retta AB, ma fare il più classico (e contorto) dei giri turistici della città, passando vicino Notre Dame, poi nel quartiere latino, a Orsay, sotto l’Opera, e infine, finalmente, nei pressi dei Campi di Marte, e tutto questo senza che nessun componente delle due parti in causa, buono o cattivo, ne spieghi o se ne chieda i motivi. Come andare da Milano a Torino passando per Roma e Venezia; solo perché il viaggio è talmente piacevole che si sente il bisogno di dilatarlo il più possibile, moltiplicando la distanza.
Ma in fondo il cinema è questo, ripiegare il mondo a misura di film; e, in particolare, è questo anche G.I. Joe, dove se i corpi sono accelerati e non rispondono alla fisica, allora hanno bisogno di un percorso più lungo e che non risponda alla logica, per descrivere un movimento che sia significativo.

Chéri e G.I. Joe sono dunque due modi diversi di vivere sul corpo, sensibilmente, il cinema contemporaneo; due facce dello stesso medaglione-talismano che è l’immagine in movimento al giorno d’oggi.
Il corpo è il film, l’anima è il cinema.

 

 

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